La mostra “1908/Oggetti ritrovati. Memorie dal Terremoto dello Stretto” inaugurata qualche giorno fa presso il Castello Aragonese, promossa dal Comune con la collaborazione dell’Accademia di Belle Arti, è un evento raro e importante – scrive in una nota il Presidente di Anassilaos Stefano Iorfida – non tanto perché aggiunge qualcosa alla storia di un evento disastroso, analizzato sul piano scientifico e della cronaca in più e diverse pubblicazioni nel corso di questi anni e che ha cambiato, con la distruzione della Città e di parte della Provincia, anche le nostre stesse vite quali figli ed eredi dei sopravvissuti, quanto perché consente a noi tutti di (ri)vivere quella tragedia con impressionante vivezza quasi fossimo stati presenti, testimoni silenti e partecipi. E in parte – rileva Iorfida – lo siamo anche stati grazie anche ai racconti che dai bisnonni e dai nonni sono fluiti fino a noi. Cronaca, spesso sfocata dal tempo, di un’alba livida di cui cogliamo, grazie agli oggetti esposti in mostra, la tragicità, scoprendo per intero la nostra fragilità. Sbaglierebbe il visitatore che si aspettasse tesori preziosi per arte e valore monetale, di quelli che siamo soliti ammirare nei musei archeologici di tutta Italia (gli ori greci, etruschi o romani) perché gli oggetti esposti, pur pregevoli in qualche suo pezzo, sono costituiti dal tesoretto che le famiglie di ieri, come le nostre di oggi, sono solite custodire dentro le mura della propria abitazione : l’anello, la collana di battesimo, il bracciale della comunione, gli occhiali con le stanghe, gli orecchini, gli orologi a cipolla. Oggetti, si diceva, forse di non grande valore monetale ma di un immenso e incalcolabile valore documentale ed umano.
E osservando questi monili nell’allestimento creato dagli artisti dell’Accademia che ne accresce il fascino discreto proprio in virtù di un certo minimalismo, ci sembra ad occhi chiusi, lontano dall’inevitabile frastuono di ogni inaugurazione, quasi di poter rivivere l’evento: il tremore improvviso, quasi lancinante e nella notte le grida di orrore di chi appena desto cerca di scampare alla rovina delle proprie fragili abitazioni stringendo a sé i figli e cercando riparo all’esterno nell’alba ancora buia e gelida – e anche piovosa secondo il racconto della nonna – senza sapere a che destino siano andati incontro i congiunti e gli amici. Non sapremo mai se i proprietari di questo piccolo tesoro siano sopravvissuti all’apocalisse e il dubbio, centoquindici anni dopo, ci attanaglia il cuore e incute il rispetto che si deve ai morti e ai vivi che seppero con coraggio ricominciare e ricostruire la Reggio di oggi, che ci appare ed è la città nella quale vorremmo per sempre vivere e morire. Con questa iniziativa frutto, come è lecito immaginare, di incontri e trattative serrate portate avanti dall’Amministrazione al fine di ottenere la restituzione di quanto era stato ritrovato e conservato, Reggio rende onore al proprio passato e a centoquindici anni di distanza chiude la ferita del 28 dicembre 1908 con un evento di grande rilevanza storica e culturale che smentisce, insieme a tutte le altre iniziative promosse da Associazioni e Circoli presenti in Città, quelle affermazioni del Sole 24Ore secondo cui Reggio Calabria sarebbe una realtà povera di cultura.
La città in realtà si caratterizza per una esuberanza di eventi e manifestazioni, frutto anche della presenza di istituzioni culturali importanti (l’Università Mediterranea, la Dante Alighieri, il Museo Archeologico, il Museo San Paolo, la Pinacoteca Civica, la raccolta del palazzo della Cultura, l’Accademia di Belle Arti, il Conservatorio Cilea). Forse per le questioni inerenti la cultura –nota polemicamente Iorfida – gli estensori dell’articolo in questione si sono ancora una volta fermati ad Eboli come il Cristo di Carlo Levi.