Del movimento Brit-pop nel corso dei decenni se n’è parlato tantissimo, ha rappresentato l’ultima grande svolta musicale del Novecento. Questo perché con il cambiamento radicale delle etichette discografiche negli anni successivi dove (tranne che in piccole realtà indipendenti) non è valso più il contenuto ma la forma, la maggioranza degli ascoltatori si è assoggettata a questa nuova tendenza, non creando più fenomeni di massa così ampi. Se come diceva il compianto Philip Seymour Hoffman interpretando uno dei più grandi critici musicali di sempre (Lester Bangs) in “Almost Famous” di Cameron Crowe che il Rock & Roll non si sarebbe più sviluppato per dire qualcosa, ma sarebbe semplicemente diventata l’industria del più figo, beh, alla fine è stato più che profetico. Questo fenomeno si è allargato a macchia d’olio inglobando tutto ciò che ha a che fare con la musica da copertina, ma esiste ancora chi è rimasto fedele ai propri ideali di gioventù.
Ne sono un esempio i Travis, nati nel 95’, proprio durante l’ascesa del Brit-pop e con sulle spalle un nome importante: Ispirato al protagonista della pellicola “Paris, Texas” di Wim Wenders, che nell’ 84’ vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes. I quattro partono da Glasgow alla conquista del Continente con brani che sono rimasti nell’immaginario di una intera generazione. In molti ricorderanno il singolo “Sing” una dei brani e dei videoclip più apprezzati degli anni 00’ e tratto dall’album “The invisible band”, prodotto da un asso come Nigel Godrich, che ha messo lo zampino in grandissimi album, collaborando con dei mostri sacri come Roger Waters, Paul McCartney, Beck, U2, R.E.M. . Già solo la copertina del disco, con la band in un bosco rigoglioso è molto evocativa, ma prima del successo internazionale Francis Healy, Dougie Payne, Andy Dunlop e Neil Primrose avevano all’attivo già due lp interessantissimi come “Good feeling” (97’) e “The man who” del (99’) dove emerge tutta l’abilità melodica di Fran che ha fatto della sua voce vellutata un marchio di fabbrica.
I Travis nella loro lunga carriera abbracceranno sempre la letteratura ed il cinema come stelle polari artistiche. L’esempio più lampante è il secondo disco “The man who”, ispiratosi al libro del neurologo e scrittore britannico Oliver Sacks: “The Man Who Mistook His Wife for a Hat”, letteralmente: “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello”, che parla dei disturbi percettivi delle persone, e rappresenta una risposta neanche troppo velata a chi giudicò il loro primo album schizofrenico. Ma dopo i primi tre lavori, la band vacilla per via di un brutto incidente capitato al batterista Neil Primrose, che tuffandosi in una piscina mezza vuota rischia la paralisi. Questo rappresenta un duro colpo per i tre compagni ed amici e valutano lo scioglimento, fortunatamente “il quarto Travis” riesce a riprendersi e da questa tragedia sfiorata nasce “12 Memories” (03’), disco più cupo dei precedenti, ma con un animo che spazia dal loro genere di appartenenza ad un soft rock più intimistico.
Dai primi anni 00’ ad oggi si susseguiranno con fortune alterne altri 6 album. L’ultimo proprio nel 2020 “10 songs”, lp certamente maturo che per una band che ha quasi attraversato 4 decenni nella loro imperturbabilità artistica, rappresenta quasi un unicum nel panorama internazionale, segnando dei resoconti sulle proprie esistenze, ma anche conditi dai sogni di gioventù mai sopiti. Una delicatezza fuori dal tempo quella dei quattro scozzesi, agrodolci come una pellicola di Wes Anderson, con quelle musicalità che ci fanno ricordare tempi migliori. Molte band a venire trassero linfa emozionale ed ispirazione dai Travis, uno su tutti Chris Martin, vocalist dei Coldplay ma anche i Keane. L’assonanza si nota molto soprattutto nei primi tre dischi della band londinese: Parachutes, (00’) A Rush of Blood to the Head, (02’) X&Y, (05’) tutti di grandissimo successo internazionale.
Ma la domanda finale è: Una band così ha ancora motivo di esistere in un mercato così tanto frammentato e dedito all’apparire a tutti i costi? La risposta è certamente si. Fran & co. sono la rappresentazione vivente di una musica di conforto dal valore inestimabile anche per chi si approccia oggi per la prima volta ai loro lavori, percependo quell’aura giovanile ed un po’ démodé che rappresenta una sicurezza per chi nonostante tutto conserva un pensiero piacevolmente empatico.