La notizia gelò tutti e fece in un attimo il giro del mondo: Kobe Bryant, la leggenda del basket, era morto a causa dello schianto del suo elicottero che avrebbe dovuto portarlo a una partita di basket nell’area metropolitana di Los Angeles. Nell’incidente morirono altre sei persone che erano a bordo, tra cui la figlia Gianna Maria di appena 13 anni.
Kobe usava spesso un elicottero per evitare il traffico. Quando la stampa americana, il 26 gennaio del 2020, annunciò la morte del Black Mamba, il mondo della pallacanestro e dello sport in generale piombò nel dolore. L’ex fuoriclasse dei Lakers aveva 41 anni, ma non era solo una stella del basket, considerato tra i miglior giocatori della storia dell’Nba coi suoi 5 titoli vinti coi Lakers, più due ori olimpici con la nazionale Usa. Ma anche un personaggio amato in tutto il mondo per la sua generosità e il suo attivismo. Fu ad esempio in prima linea contro la violenza nei confronti degli afroamericani, nonché fermo sostenitore dello sport giovanile come strumento di emancipazione. Non solo un grande cestista quindi, ma anche un punto fermo per intere comunità di emarginati.