“I reggini a chi volevano dedicare quella costruzione? E perché non hanno continuato i lavori? Chi è il personaggio del quale si doveva cancellare la memoria?”. Attorno a quanto rivelato dagli scavi archeologici di piazza Garibaldi, questi interrogativi sono formulati dallo storico Francesco Arillotta, presidente di Amici del Museo, secondo cui si può condividere l’ipotesi avanzata dall’architetto Michaelis Lefantzis, secondo cui la struttura romana scoperta a piazza Garibaldi sarebbe la “eclatante testimonianza di una damnatio memoriae”.
A proposito della condizione del manufatto, il professore si discosta però da Lefantzis: “Egli opta per la rasatura drastica di un edificio già costruito. Io, invece, fin dall’inizio dello scavo, guardo con attenzione al fatto che la superstite, robusta massicciata di pietre sembra del tutto pulita”.
Nella sua riflessione sul podium emerso dal sottosuolo della piazza, Arillotta fa una premessa sullo scenario generale: “Da quelle che sono le risultanze delle ricerche sulla storia urbanistica di Reggio Calabria, su questo lato, posto a meridione rispetto al nucleo urbano principale, in età romana, qui siamo in aperta campagna. La città costruita da Dionigi il vecchio chiudeva la sua cinta muraria meridionale sull’asse piazza Camagna-via Vitrioli. Reggio romana – continua lo storico – si era allargata sino a raggiungere la riva destra della fiumara Calopinace, sull’attuale tracciato della via 21 Agosto, costruendo la grande terma di cui qualcosa resta sul Lungomare, nonché una serie di altri edifici, che hanno lasciato tracce importanti del lusso che li caratterizzava. Al di là del Calopinace, che, però, a metà del XVI secolo, avrà l’attuale orso, c’è da segnalare solo un pavimento a mosaico nell’area dell’attuale Villa Comunale, e un edificio che ha restituito un grosso tesoretto monetale, nell’area continua a piazza Sant’Agostino”.
Secondo lo studioso, tutto è sottoposto alle esondazioni della fiumara, come dimostra il livello al quale oggi è posta la struttura di piazza Garibaldi. “Tucidide – afferma Francesco Arillotta – sembra porre in questa zona l’area sacra ad Artemide nella quale si accampò, nel 412 a. C. l’esercito ateniese diretto verso Siracusa. E questa – continua lo studioso – potrebbe essere la zona nella quale, come racconta Varrone, si estendeva il boschetto di piante di alloro sacro ad Apollo, ad un albero del quale il matricida Oreste avrebbe appreso la daga del delitto, dopo essere guarito dalla psoriasi, immergendosi nelle acque salutari che qui scorrevano”.
Continua l’excursus di Arillotta: “Ad un miglio ad austro dalla città fu sepolto il nostro primo vescovo Santo Stefano da Nicea; in questa grande spianata sulla quale si affacciava il famoso convento e scriptorium di San Nicolò di Calamizzi, nel 1042, l’esercito bizantino comandato da Basilio Pediadites, eunuco,, potrebbe aver assistito alla cerimonia della donazione del suo prezioso ‘scaramangion’, che il generale fece alla chiesa del convento, come gesto propiziatorio per le future battaglie contro gli Arabi di Sicilia”.
Infine, aggiunge il professore, questa zona è rimasta senza testimonianze edilizie di un qualche rilievo fino all’immediato pre-terremoto del 1908, per cui consente ipotesi allettanti per una ricerca di archeologia botanica che tante cose potrebbe dire sulla storia agronomica di Reggio (auspicata proprio da Amici del Museo presso la soprintendenza).
Tornando al presente ritrovamento archeologico, osservando la costruzione da vicino, secondo Franco Arillotta, tecnicamente la struttura si può definire un “classico ‘vespaio‘ di pietre fatto per assicurare stabilità al futuro fabbricato, non sia mai stato steso quello strato più o meno spesso di malta (o quant’altro all’epoca si usasse) che serve per ripianare il tutto e preparare la base della pavimentazione”.
Osserva lo storico: “La considerazione è importante perché, se così fosse, significherebbe che la costruzione dell’edificio, arrivati a quel livello, fu improvvisamente e definitivamente interrotta; il che marcherebbe ancor più l’ipotesi di partenza. Chiarire la situazione, spetta, ovviamente, agli archeologhi; ai quali si chiede, anche, di ridurre al massimo la forbice della datazione”.
Ma quell’opera edilizia non fu mai completata, e anzi abbandonata, secondo la tesi cara al presidente di Amici del Museo. Che conclude: “E’ compito degli storici cercare di capire cosa può essere successo in città, in un momento a cavallo tra I secolo ante e post Cristo. Damnatio memoriae. Due nomi vengono alle labbra; ma è troppo presto per pronunciarli”.