Il 16 gennaio 2025 è morto David Lynch, un visionario assoluto, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi.
Era da molto tempo affetto da un enfisema polmonare a causa del suo tabagismo, nato all’età di 8 anni e che lo portava a fumare 2 pacchetti al giorno.
Anche questo può descrivere l’artista incredibile che è stato: sapeva che si stesse facendo del male, ma ha continuato imperterrito, come ha continuato imperterrito a donare alla gente le sue opere meravigliose, cosciente degli incubi che avrebbe provocato allo spettatore. Nasce come pittore e non studia mai cinema, ma era chiaramente un predestinato.
Iniziando con dei cortometraggi anch’essi stupendi, il regista americano sforna la sua prima opera e, ovviamente, il primo dei tanti capolavori della sua filmografia.
“Eraserhead – La mente che cancella” (1977) è il suo primo film: un viaggio, anzi, un incubo nella paternità, nei dubbi e nelle paure che può avere un aspirante padre o un neo-papà, una spirale di follia, un film sperimentale che, alla fine, racchiude tutte le tecniche e la sua filosofia, poi riversate in tutti i suoi altri film.
l film è ricco di immagini fortemente simboliche: la città di Eraserhead è un paesaggio urbano cupo, caratterizzato da ambienti industriali e inquietanti, mentre il suono, che gioca un ruolo fondamentale, crea un’atmosfera che si percepisce come alienante. La colonna sonora di Alan Splet, fatta di rumori meccanici e suoni inquietanti, amplifica il senso di angoscia, immergendo lo spettatore in un mondo che sembra essere in preda al caos.
Il tema centrale del film è la paura dell’inadeguatezza e dell’isolamento. Henry, incapace di gestire la paternità e la sua situazione, è intrappolato in un’esistenza che sembra una continua minaccia, sia psicologica che fisica. Il mostro bambino diventa una sorta di allegoria per le ansie umane, la paura dell’incomprensibilità della vita e l’incapacità di controllarla.
Lynch gioca con il confine tra sogno e realtà, creando un mondo che potrebbe essere letto come una distorsione psicologica della mente del protagonista. Le immagini sono spesso oniriche, ambigue e non sempre spiegate, lasciando spazio a molteplici interpretazioni. Ogni scena sembra avere un significato che sfida la comprensione razionale, un tratto distintivo che diventerà una costante nei suoi lavori successivi.
“The Elephant Man” (1980) è un altro capolavoro, ma stavolta si discosta dall’inquietante surrealismo di Eraserhead per abbracciare una storia più realistica, anche se sempre profondamente emotiva e umana. Il film racconta la vera storia di John Merrick, un uomo che nel XIX secolo divenne famoso per le sue deformità fisiche estreme, che lo rendevano simile a un “mostro” agli occhi della società.
Il protagonista, interpretato magistralmente da John Hurt, è un uomo che soffre di una malattia rara chiamata neurofibromatosi, che causa una deformazione straordinaria del suo corpo. Merrick vive inizialmente come una sorta di attrazione da circo, sfruttato e abusato, ma la sua vita prende una piega diversa quando un giovane dottore, Frederick Treves (Anthony Hopkins), lo scopre e lo porta in ospedale, dove diventa il soggetto di studi medici.
Il film esplora il conflitto tra la brutalità della società nei confronti di Merrick, che viene trattato come una curiosità morbosa, e la sua straordinaria umanità. Lynch, pur trattando temi di emarginazione e sofferenza, infonde al suo personaggio una profondità emotiva che fa emergere la sua dignità e il suo desiderio di essere trattato come un essere umano, non come un mostro. Il personaggio di Merrick è rappresentato con una grande delicatezza, mostrando non solo la sua sofferenza fisica, ma anche la sua solitudine e il suo desiderio di essere amato e rispettato.
Il terzo film della sua filmografia è forse il meno riuscito: “Dune” (1984), opera che oggi sta avendo un grande successo grazie al riadattamento di Denis Villeneuve.
Sebbene il film non sia stato un successo immediato e abbia ricevuto critiche contrastanti, con il passare degli anni è diventato un cult per molti appassionati di cinema, grazie alla sua visione unica e all’approccio distintivo.
La storia è ambientata in un futuro lontano, in un impero galattico che controlla un pianeta desertico chiamato Arrakis. Questo pianeta è l’unica fonte dell’ “melange”, o spezia, una sostanza che è cruciale per il viaggio spaziale e per l’economia dell’universo conosciuto.
Il giovane Paul Atreides (Kyle MacLachlan), erede della Casa Atreides, si trova al centro di una lotta politica e di un conflitto interstellare quando la sua famiglia viene tradita e distrutta dalla Casa Harkonnen, rivale dei Atreides.
Paul dovrà affrontare il destino che gli è stato prefigurato, diventando una figura messianica e un leader rivoluzionario.
“Velluto blu” (1986) è uno dei film più iconici di Lynch, un thriller psicologico che mescola il noir con il surreale.
La storia ruota attorno a Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan), un giovane che scopre un orecchio mozzato in un campo e si coinvolge in un misterioso caso legato a una cantante di club, Dorothy Vallens (Isabella Rossellini).
Mentre indaga, Jeffrey si imbatte in Frank Booth (Dennis Hopper), un criminale psicotico, e si trova immerso in un mondo sotterraneo di violenza, perversione e follia.
Il film esplora temi di dualità e corruzione, contrastando l’apparente normalità di una cittadina con il lato oscuro che si cela sotto la superficie. La fotografia, con il suo uso distintivo di luci e ombre, e la colonna sonora di Angelo Badalamenti, con il tema musicale inquietante, contribuiscono a creare un’atmosfera di tensione e ambiguità.
Un racconto sul desiderio, il controllo e la discesa nella mente distorta, un film che sfida la visione tradizionale del “sogno americano” e lascia lo spettatore turbato e pensieroso.
“Cuore selvaggio” (1990) è un film di David Lynch che mescola il road movie con il noir e l’assurdo.
Racconta la storia di Sailor (Nicolas Cage) e Lula (Laura Dern), due giovani innamorati che fuggono da una serie di minacce, tra cui la madre di Lula, una donna ossessionata dal controllo e dai traumi del passato.
La coppia attraversa gli Stati Uniti, affrontando incontri surreali e violenti, mentre si confrontano con l’amore, la libertà e la follia.
Il film è caratterizzato dal tipico stile visivo e narrativo di Lynch, con un tono grottesco e momenti di estrema violenza, ma anche di puro romanticismo.
Il mix di surrealismo, simbolismo e umorismo nero crea una riflessione sul destino e sull’ossessione, mentre la colonna sonora, con brani rock e blues, accentua il senso di ribellione e passione che anima i protagonisti.
Un film che oscilla tra il sogno e l’incubo, esplorando la natura destrutturata del desiderio e della libertà.
“Twin Peaks” (1990-1991; 2017) ha segnato un prima e un dopo nella storia della televisione seriale.
Con “Twin Peaks” Lynch ha ridefinito cosa una serie TV potesse essere, creando un vero e proprio culto.
La serie ha portato nel mainstream un mix di surreale, mistero e introspezione psicologica mai visto prima, influenzando generazioni di autori e spettatori. Tutti hanno sentito anche solo una volta Laura Palmer.
La terza stagione, intitolata “The Return”, ha ulteriormente spinto i confini del medium televisivo, con episodi sperimentali come il celebre episodio 8, un viaggio visivo e sonoro che racconta l’origine del male.
Nel 1992 torna al mondo di Twin Peaks con “Twin Peaks: fuoco cammina con me”, prequel della serie che sconvolge lo spettatore con la cruda rappresentazione della discesa agli inferi di Laura Palmer.
Il film si concentra sugli ultimi giorni di vita della giovane, rivelando il peso insopportabile dei suoi segreti e delle sue sofferenze. È un’opera disturbante, che amplifica il lato oscuro della serie originale.
“Strade Perdute” (1997) è un labirinto mentale tra identità spezzate e paure recondite, in cui la narrazione segue percorsi non lineari e sfida costantemente le aspettative dello spettatore.
La storia di Fred Madison, accusato dell’omicidio della moglie, si trasforma in un intricato gioco di sdoppiamenti e simbolismi.
Ogni scena sembra carica di significati nascosti, dove il tempo si distorce e il pubblico è costretto a navigare in un mare di enigmi. La violenza, l’amore, la morte e la vendetta si mescolano in una danza macabra che non offre risposte facili, ma invita a una riflessione profonda su come percepiamo la realtà, le emozioni e il nostro posto nel mondo. In questo modo, Strade Perdute non è solo un thriller psicologico, ma anche una meditazione sulla psiche umana e sulle forze oscure che la governano.
“Una storia vera” (1999) è un film che si distacca dalle sue consuete atmosfere surreali per esplorare una narrazione più semplice e toccante, pur mantenendo il suo stile unico.
La storia segue Alvin Straight (Richard Farnsworth), un anziano contadino dell’Iowa che intraprende un lungo viaggio in trattore per riavvicinarsi al fratello malato. Il film si concentra sul tema della famiglia, della redenzione e dell’invecchiamento, con una riflessione silenziosa e profonda sulla vita e la morte.
Nonostante l’apparente linearità della trama, Lynch infonde il film con una qualità riflessiva, con l’uso di paesaggi rurali e momenti di solitudine che creano un’atmosfera di malinconia e meditazione. Una storia vera è una rara incursione del regista nel dramma realistico, ma la sua capacità di evocare emozioni profonde e di esplorare la condizione umana è evidente anche in questo contesto più sobrio.
“Mulholland Drive” (2001) è probabilmente il suo lavoro più celebrato, un sogno lucido e inquietante che esplora le illusioni e le delusioni di Hollywood.
Betty (Naomi Watts), un’aspirante attrice, arriva a Los Angeles e si ritrova coinvolta in un mistero insieme a una donna smemorata. Il film fonde realtà e fantasia, facendo emergere i lati oscuri del sogno hollywoodiano.
La Los Angeles di Lynch è un luogo ambiguo, pieno di speranze infrante, e il film esplora la solitudine e la disillusione che si nascondono dietro le luci della città.
Con la sua narrazione non lineare e la ricca simbologia, Mulholland Drive è un’opera che sfida e affascina, lasciando un’impronta indelebile nella mente dello spettatore e spaventando con uno degli jumpscares più spaventosi di sempre.
“Inland Empire – L’impero della mente” (2006) è un’opera densa e sfuggente, che sfida ogni convenzione narrativa.
Lynch utilizza una struttura frammentata, senza una trama chiara o risoluzioni facili, costringendo lo spettatore a navigare in un mondo dove il tempo e lo spazio si confondono.
La performance di Laura Dern è al centro del film, con un’interpretazione che sfuma tra il reale e il surreale, mentre il suo personaggio si perde in una spirale di esperienze bizzarre e inquietanti.
Le immagini, spesso volutamente crude e sovraesposte, e il suono, ricco di tensione, sono usati da Lynch per creare una sensazione di angoscia crescente.
Il film esplora la dissoluzione dell’identità, i desideri oscuri e le ossessioni nascoste dietro la facciata di Hollywood, ma anche la sensazione di essere intrappolati in un ciclo infinito di realtà multiple e narrazioni impossibili da decifrare.
Inland Empire è un’ode all’irrealtà, un film che non offre spiegazioni, ma che stimola riflessioni su come vediamo e costruiamo la realtà.
David Lynch non è stato e non è chiaramente per tutti: le sue opere hanno sempre sfidato lo spettatore a riflessioni profondissime, provocando disagio e inquietudine.
I suoi film sono stati sempre veri e propri incubi, mai sogni. Il sogno americano nei suoi film non esiste; al massimo esiste il galleggiamento in una situazione comunque oscura. Non esiste la luce, ma solo buio.
Tuttavia, è proprio in questa oscurità che ha trovato una bellezza unica, capace di far emergere emozioni viscerali e profonde.
Sono veramente pochi i registi che non saranno mai dimenticati, ma di certo Lynch è uno di questi.
La mente degli spettatori, questa volta, non cancellerà quello che è stato uno dei migliori artisti del 21° secolo.