Sei giorni camminando nel deserto del Mali, poi tre giorni di paura in mare, con una gravidanza gemellare a rischio da portare avanti, da portare in salvo, rischiando la vita. Questa la storia a lieto di fine di Mariama, ventisettene guineana alla trentesima settimana di gravidanza che ha raggiunto a piedi la Libia per imbarcarsi verso l’Italia in un vero e proprio viaggio della speranza. Speranza che le complicazioni della gravidanza non avessero la meglio in mezzo al mare, speranza di riuscire a raggiungere il marito già lavoratore in Italia, speranza di dare alla luce due bambini sani e di vederli crescere in un paese migliore.
Mariama è arrivata a Reggio Calabria sabato 11 febbraio, insieme agli altri 583 migranti recuperati dalla nave Diciotti della Guardia Costiera. Trasferita subito al GOM, è stata operata d’urgenza nella mattina di domenica, per un parto cesareo prematuro che ha portato alla vita due bellissimi maschietti, uno di un chilo e uno di un chilo e 300, adesso ricoverati in terapia intensiva neonatale ma completamente fuori pericolo. Grata al personale del GOM e alle ostetriche che l’hanno fatta sentire al sicuro, adesso Mariama si è finalmente ricongiunta al marito, arrivato da Roma per abbracciare la donna e i due bambini, e attende di poter iniziare la loro nuova vita.
Quella di Mariama e della sua famiglia è una storia a lieto fine, che però per la maggior parte dei migranti che si affidano a scafisti e trafficanti è preclusa. I flussi migratori sono quasi sempre narrazioni di tragedie e morti in mare, di arresti e di trasferimenti dolorosi. In Calabria, sono ancora fresche le cicatrici di Cutro, con i corpi delle vittime che, a distanza di oltre due settimane, il mare continua a restituire.
Perché, a discapito di tutti i partiti politici e le associazioni umanitarie, è la morte la più egualitaria delle istituzioni: non guarda in faccia nessuno, e trascina con sé uomini e donne, anziani e bambini, senza discriminazione alcuna. A poco valgono i plausi ai soccorritori, seppure dovuti e necessari. Non hanno bisogno di nuova dignità le speranze infrante dei naufraghi, di chi ha accettato il rischio di non vedere mai la riva, perché non può considerarsi poco dignitosa la disperazione, anche se porta a spezzare la propria vita e quella dei propri figli.
Ed è proprio per sopravvivere al susseguirsi di bare, alle camere ardenti, ai fiori sulla spiaggia, alle croci con i resti delle imbarcazioni che la storia di Mariama va raccontata.
E va fatto con ancora più forza: il prezioso lieto fine non deve essere l’eccezione, ma la prassi, raggiungibile solo attraverso una lotta per la difesa che non può fermarmi dentro i confini del proprio Stato, ma che va combattuta sempre, in ogni luogo, in nome del primo dei diritti fondamentali: quello alla vita.