Alla presentazione del libro “Il sequestro Materazzi”, di Pietro Melia, prevista per le ore 18,30, oltre all’autore del libro sarà presente Enzo Macri, magistrato, Giuseppe Marino, Libera Reggio Calabria, Anna Foti giornalista, nel ruolo di moderatrice
Ottimo lavoro quello di Pietro Melia, all’epoca “cronista di strada” – figura oggi quasi sparita -, “ancora sulla breccia ed in grado d’impugnare la penna e raccontare”.
Quello del sequestro Materazzi è stato un periodo veramente triste che inaugurava la stagione della prima guerra di ‘Ndrangheta con un bilancio di 200 omicidi, di innumerevoli tentati omicidi e attentati dinamitardi. Guerra iniziata con l’omicidio di Giovanni De Stefano avvenuto al Roof Gaden che si concluse dopo circa due anni in cui si registrò la morte di due grossi boss della vecchia generazione, Antonio Macri e Mico Tripodo, contrari ai sequestri di persona fini estortivi, perché questo avrebbe “militarizzato” il territorio con le forze dell’ordine alla ricerca del sequestrato e dei sequestratori. Allo stesso tempo ci andava di messo la credibilità “dei capi bastoni”, che apparivano agli occhi della gente incapaci di assicurare l’ordine nel territorio di rispettiva influenza.
Vinse, come a ognuno è noto, la “nuova Mafia”.
E i sequestri decollarono alla grande.
“Il sequestro del giovane Matarazzi, secondo la nostra opinione, andava a collocarsi in un momento specifico del fenomeno considerato nel suo complesso: vale a dire inun’epoca in cui i sequestri erano -il più delle volte- finalizzati all’acquisizione di attività economiche di punta (farmacie, imprese edilizie, imprese commerciali avviate, cospicue proprietà agrarie, tanto per dirne qualcuna), prima ancora che all’incasso del prezzo del riscatto.
L’opzione sequestro=riscatto e quindi sequestro=danaro tout court si affermerò di lì a breve, e a farne le spese saranno precipuamente gli operatori settentrionali, in particolare lombardi
(ben 158), come ufficialmente certificato dalla relazione della Commissione Antimafia sul tema approvata nella seduta del 7.10.1998”.
Lo stato chiamato a tutelare la vita e l’incolumità e i beni dei cittadini, si poneva in maniera incerta e senza strategie efficaci. Ogni sequestro veniva trattato a sé, le indagini affidati al corpo di polizia che interveniva per primo con scarsa comunicazione tra di loro. Scarsi gli organici delle forze dell’ordine che dovevano indagare sul sequestro in contemporanea su altri fatti di criminalità.
“Per farla breve: i sequestri, per gli apparati che contavano, erano episodi frammentari di criminalità e non rivestivano la dignità di problema nazionale”.
Lo divennero a distanza di molto tempo, quando si moltiplicarono al sud e al nord la misura comincio ad essere colma a seguito del prelevamento di bambini o anziani. Un ruolo importante ebbe la madre di Casella con lo storico viaggio alla ricerca di liberare il figlio. “Le immagini delle proteste della signora Casella fecero il giro del mondo e costrinsero lo Stato centrale come si dice a prendere provvedimenti”.
Si costituirono i nuclei antisequestro; si comincio a utilizzare le tecnologie, si adeguarono gli organici delle forze dell’ordine e dei magistrati assegnate alle procure, si rividero le norme delle Procure circa le competenze a condurre le indagini, si inizio ad applicate la legge Rognoni-La Torre; si posero in essere norme premiali per i dissociati, si realizzò un’occupazione militare intelligente del territorio aspromontano con i carabinieri dello squadrone “Cacciatori di Calabria “.
Molti di questi strumenti normativi, organizzativi e investigativi provenivano dalle esperienze maturate dalle forze dell’ordine e dalla magistratura nella lotta contro il terrorismo politico a cavallo degli anni 1970 e 1980.
I sequestri di persona si ridussero gradatamente sino a scomparire. Fu merito solo dell’effetto dell’attività di prevenzione e repressione? In parte è così. Perché servi a convincere la Criminalità che l’accumulazione di capitale era oramai cosa fatta e che correre i rischi, nel frattempo fortemente accresciuti, non ne valeva la pena. Da qui la scelta d’impegnarsi su versanti più redditizi e meno rischiosi.
Dobbiamo sottolineare che i sequestri che si sono protratti per quasi trent’anni in Italia e specialmente in Calabria hanno prodotto danni incalcolabili al tessuto sociale ed economico che hanno condizionato il futuro delle regioni in cui il fenomeno è stato più esteso e presente.
“Una domanda ci si affaccia tuttavia di frequente nella mente: possibile che lo Stato centrale, PER TRENT’ANNI (si, perché i sequestri di persona a scopo estorsivo si sono protratti per trent’anni!) sia stato così disattento da non riuscire a cogliere il prezzo che la Comunità avrebbe dovuto pagare nell’immediato e negli anni a seguire? Possibile che si sia dovuto attendere il viaggio in Calabria di Mamma Casella per cominciare a fare qualcosa sul serio? Fu davvero disattenzione, sottovalutazione? O fu altro? A tale interrogativo non siamo sinora riusciti a dare una risposta”.