L’ampia istruttoria non ha offerto elementi per ritenere provati nessuno degli elementi che, nella pratica giudiziaria, vengono valorizzati per dimostrare l’esistenza di una struttura associativa” e “i dialoghi intercettati in linea con gli accertamenti patrimoniali compiuti su Lucano Domenico suggeriscono di escludere che abbia orchestrato un vero e proprio ‘arrembaggio’ alle risorse pubbliche”.
È quanto si legge nelle motivazioni di secondo grado della sentenza del processo “Xenia” nato un’inchiesta della guardia di finanza sulle presunte irregolarità nella gestione dei progetti di accoglienza dei migranti nel Comune di Riace.
Il processo è stato celebrato davanti alla Corte d’Appello di Reggio Calabria che, lo scorso ottobre, ha condannato, per un solo falso, l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano a 18 mesi di reclusione, con pena sospesa, e ribaltando la decisione del Tribunale di Locri che, nel 2021, lo aveva condannato a 13 anni e 2 mesi di carcere.
Lucano era accusato di diversi reati. Il più grave era quello di essere il promotore di un’associazione a delinquere finalizzata alla gestione illecita dei fondi destinati ai progetti Sprar e Cas. Tra i capi di imputazione contestati c’era anche la truffa aggravata, l’abuso d’ufficio, diversi falsi e un peculato. Tutti reati caduti in appello, tranne un falso. Nelle motivazioni si legge che i giudici di secondo grado hanno ritenuto non utilizzabili le intercettazioni telefoniche e ambientali. Questo tuttavia, si legge ancora, “non impedisce di individuare elementi di prova favorevoli agli imputati”.
La Corte d’Appello reggina ha accolto le ragioni degli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia in relazione al reato di associazione a delinquere: “L’esistenza di uno stabile accordo di natura delittuosa – è scritto – nemmeno può essere desunta”. Per la truffa aggravata, invece, “manca la prova degli elementi costitutivi il reato” mentre le determine per le quali Lucano era accusato di falso ideologico in realtà “non erano funzionali a ottenere le somme del Ministero”. Lo stesso vale per la contestazione di peculato, un reato che – scrivono i giudici – “non è configurabile per la gestione e destinazione di somme di provenienza pubblica, anche dopo la loro corresponsione, quale corrispettivo del servizio, pattuito a seguito di apposito contratto e prestato”.