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Il metodo Stanislavskij

Nei primi anni del 900 nasce il metodo Stanislavskij, l'approccio attoriale più interessante e immersivo di sempre

di Paolo Frascati

All’inizio del Novecento, il regista e attore russo Konstantin Sergeevič Stanislavskij sviluppò un rivoluzionario metodo di recitazione, destinato a ridefinire il teatro moderno e l’approccio alla recitazione. Il suo metodo, oggi chiamato “metodo Stanislavskij”, si basa sulla fusione tra il mondo interiore dell’attore e quello del personaggio, attraverso un’immersione psicologica e una rielaborazione intima delle emozioni.

In collaborazione con Nemirovič-Dančenko, Stanislavskij volle migliorare le condizioni di lavoro degli attori, promuovendo la disciplina, la conoscenza del testo e la moralità sul palco. Gli attori ricevevano spazi riservati e una biblioteca personale, e all’interno della compagnia veniva eliminata ogni gerarchia: chi interpretava un protagonista in uno spettacolo poteva essere relegato a una comparsa nel successivo. In questa fase, la regia di Stanislavskij era predominante, influenzando fortemente le interpretazioni degli attori.

Con l’inizio del XX secolo, però, Stanislavskij riconsiderò il ruolo del regista come guida e supporto piuttosto che come sostituto degli attori. Soprattutto grazie al lavoro su testi di Anton Čechov, come Il giardino dei ciliegi, comprese l’importanza di aiutare l’attore a esprimere al meglio le emozioni del personaggio. L’attore, secondo Stanislavskij, doveva rimanere sempre coinvolto emotivamente per evitare una recitazione meccanica e superficiale.

Per raggiungere questo scopo, il metodo prevedeva che l’attore approfondisse il personaggio, dandogli una vita interiore oltre al testo, e utilizzasse le proprie esperienze personali per collegarle alle emozioni del personaggio, in quella che Stanislavskij chiamava “memoria emotiva.” Questo processo portò alla formulazione di un primo abbozzo del metodo nel 1906, che continuò a perfezionare fino al 1911, quando iniziò a testare le sue tecniche con gli attori.

Negli anni ’30, Stanislavskij evolse ulteriormente il metodo verso quello che definì il “metodo delle azioni fisiche”.
Realizzò infatti che non era sempre semplice per gli attori mantenere il livello di coinvolgimento emotivo richiesto dal suo metodo originale. Così, decise di far fissare agli attori le emozioni attraverso azioni fisiche predefinite, come un bacio o un gesto passionale, su cui poi avrebbero sovrapposto il testo, facilitando il processo emotivo.

Molti attori sono noti per aver abbracciato questo metodo in modo estremo. Jack Nicholson in Shining, ad esempio, si immedesimò così profondamente nel ruolo che agitava l’ascia e si preparava intensamente prima delle riprese, creando un’atmosfera di tensione reale impaurendo la povera Shelley Duvall anche al di fuori dalle videocamere.
Un altro esempio lampante è quello di Marlon Brando in Il mio corpo ti appartiene dove l’attore interpreta Ken, soldato rimasto paraplegico in seguito al secondo conflitto mondiale. Per prepararsi al ruolo, Brando è rimasto per settimane “ricoverato” in un ospedale, spacciandosi per un reduce di guerra

Il metodo Stanislavskij ha lasciato un’impronta profonda sul mondo della recitazione, permettendo agli attori di immergersi intensamente nei personaggi e regalare al pubblico interpretazioni profonde e autentiche.
Tuttavia, il livello di coinvolgimento richiesto può avere effetti psicologici estremi. Evan Peters, per esempio, ha vissuto un forte disagio emotivo e persino sensi di colpa dopo aver interpretato Jeffrey Dahmer nella serie Netflix Monsters, sviluppando una depressione a causa della natura oscura e inquietante del personaggio.

Il metodo Stanislavskij, pur essendo uno strumento potente per l’attore, evidenzia così la sottile linea tra realtà e finzione, e l’importanza di mantenere un equilibrio emotivo per evitare che il processo di immedesimazione sfoci in un trauma reale.

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