Il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, di ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall’aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40.
Tre auto blindate li aspettano. È la scorta di Giovanni, la squadra che ha il compito di sorvegliarlo, dopo il fallito attentato del 1989 dell’Addaura.
Dopo aver imboccato l’autostrada che porta a Palermo, all’altezza dello svincolo di Capaci, una terrificante esplosione disintegra il corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani.
Quando parliamo di Giovanni Falcone, il rischio di cadere in ricostruzioni epiche sulla sua figura, è abbastanza elevato.
Era un essere umano, come tutti noi, impegnato a svolgere correttamente il suo lavoro, quello di magistrato. Lo svolse talmente bene da inimicarsi molte persone, alcune delle quali provenienti dalle file stesse dello Stato.
Giovanni Falcone va ricordato perché, grazie alla sua sapiente attività investigativa e al suo metodo riuscì a portare i vertici di Cosa Nostra in tribunale, ed a ottenere pesanti condanne nei loro confronti, cosa mai accaduta prima. Già all’inizio degli
anni’ 70, vi erano stato importanti processi per mafia portati avanti dal giudice Terranova (pure lui ucciso da Cosa Nostra il 25 settembre 1979 ). Essi, però, si concludevano con assoluzioni per insufficienze di prove o lievi pene. In quegli anni
– nonostante l’impegno profuso da magistrati come Terranova – mancava ancora una visione globale del fenomeno mafioso.
Giovanni Falcone era un uomo molto intelligente, probo, equilibrato, e, nello stesso tempo, determinato e tenace.
Amava profondamente la sua Sicilia, e vedendola sottomessa, insanguinata, e corrotta dalla mafia, si impegnò, con tutta la sua energia intellettuale e morale, e con tutte le sue capacità professionali, per liberarla dal suo male.
Non fu folgorato all’improvviso sulla via di Damasco: si immerse nel lavoro, e di esso ne fece una missione professionale.
Ascoltava, osservava, indagava e verificava, e poiché lo faceva con scrupolo ed era dotato di un’intelligenza analitica fuori dal comune, sempre attenta ai dettagli e alle connessioni, ogni giorno faceva un passo in avanti.
Giovanni Falcone non si è mai sentito un eroe, ma solo un uomo dello Stato chiamato a fare il proprio dovere. Contro il mito negativo dell’invincibilità di Cosa nostra diceva: “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni
umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà una fine”.
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Tra i primi a comprendere la struttura unitaria e verticistica di Cosa Nostra, ha creato un metodo investigativo diventato modello nel mondo.
Rigorosa ricerca della prova, indagini patrimoniali e bancarie, ostinata caccia alle tracce lasciate dal denaro e lavoro di squadra sono stati i suoi fari, le armi con le quali, insieme al pool antimafia, ha istruito il primo maxiprocesso a Cosa
nostra, il suo capolavoro. L’eccezionale impegno di un manipolo di magistrati guidati da Falcone dopo anni di assoluzioni per insufficienza di prove portò alla sbarra 475 tra boss e gregari di Cosa nostra e si concluse con 19 ergastoli e
condanne a 2665 anni di carcere.
Con questa disciplina, giunse a forgiare un metodo investigativo rigoroso perché fattuale, lontano mille miglia dalle suggestioni di teoremi, nutrito in partenza di un modo di lavorare collegiale, paziente e prudente. Un’attitudine a connettere indagini sino ad allora spezzettate, giungendo alla convergenza del molteplice.
Il suo motto era “specializzazione, coordinamento e collaborazione”.
Creò un patrimonio di conoscenze e relazioni internazionali; con il senno di poi sembra fin troppo ovvio che a una mafia trans atlantica, a una criminalità organizzata e internazionale, si dovesse contrapporre una giustizia altrettanto se non più
organizzata e internazionalizzata. Eppure senza Falcone non ci si sarebbe arrivati, e a Falcone fu rimproverato anche questo: che la troppa confidenza e collaborazione con l’FBI e la DEA lo avessero spinto “a voler fare l’americano”.
Falcone definiva la Mafia non come un anti Stato ma uno stato parallelo: lo Statomafia che non è solo mafia e non è solo Stato.
“Un’organizzazione parallela che vuole approfittare delle storture dello sviluppo economico, agendo nell’illegalità … La mafia si alimenta dello Stato e adatta il proprio comportamento al suo … E quanto più lo Stato si disinteresserà della mafia e
le istituzioni faranno marcia indietro, tanto più aumenterà il potere dell’organizzazione”.
La mafia è la patologia del potere; sa adattarsi, trasformarsi, mimetizzarsi, imparando a sfruttare le nuove opportunità criminali offerte per esempio dalla globalizzazione dei mercati finanziari e dalle innovazioni tecnologiche.
Giovanni Falcone osservando la “straordinaria contiguità economica, ideologica, morale tra mafia e non mafia, e l’inevitabile commistione tra valori siciliani e valori mafiosi” ne trasse una considerazione più generale che fa ancora oggi riflettere:
“ Gli uomini d’onore non sono né diabolici né schizofrenici. La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quello di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e comportamenti che ci appaiono diversi dai nostri. Ma se vogliamo combattere
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efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro, né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia”.
“La cosa più difficile da combattere è proprio questa contiguità, soprattutto quando diventa rapporto di interesse o di potere”.
L’idea di Falcone sulla Mafia nasce sulla scia della precedente opera di un altro grande Uomo e Magistrato, Rocco Chinnici, Capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, il quale dichiarò che: “ … la mafia non recluta solo nelle carceri ma ovunque si
ponga ai giovani la scelta tra l’emarginazione e il prestigio, il ruolo sociale, il denaro facile, le carriere e il successo del mafioso. Tagliare le basi sociali del reclutamento significa recidere le radici stesse dell’organizzazione”.
Siamo vicino all’idea che Falcone svilupperà sulla mafia dispensatrice di vantaggi sociali e amministratrice di giustizia che colma le assenze e gli errori dello Stato.
Venerdì 29 luglio 1983, una Fiat 126 parcheggiata sotto la casa di Rocco Chinnici esploderà, con 75 chili di tritolo uccidendo lui, i due carabinieri di scorta e il portiere dello stabile.
E’ il primo magistrato ammazzato col tritolo; dopo di lui ce ne saranno solo altri due, Falcone e Borsellino.
Ricordare oggi Falcone vuol dire: mantenere vivo il suo esempio, il suo senso del dovere, elevato a senso dello Stato; ribadire che “Chi ha coraggio muore una volta sola, chi ha paura muore tutti i giorni”; capire cosa è il coraggio:
“L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”.
Falcone vive, continua a vivere tra noi grazie ai risultati della sua opera, per quel che ha fatto, detto, scritto; l’impronta che ha lasciato non si cancella, si trasmette e rinasce.
E’ compito di ciascuno di noi mantenere in vita le sue idee, perché, come Lui ci ha insegnato: “Gli uomini passano, le idee restano. Ma servono nuove gambe per farle camminare”.
Ecco perché è importante ricordare.
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