Oggi ci ha lasciati Pasquale Favano, una delle figure più importanti della pallacanestro reggina e calabrese di sempre.
Ogni volta che si pensa alla Pallacanestro Viola, il pensiero va automaticamente a lui.
Pasquale non è stato solo il mitico custode di una società che ha calcato i campi di Serie A per anni, ma è stato una figura di riferimento per i ragazzi, quasi come un insegnante di vita.
Un ragazzo che, dopo una giornata trascorsa tra scuola e libri, trovava sempre un’accoglienza calorosa al campo sportivo, un luogo immacolato e perfetto grazie alla sua cura.
Pasquale era presente per tutti, con un sorriso pronto e la capacità di risolvere ogni problema, anche il più complesso.
È impossibile trovare qualcuno che abbia passato del tempo nel centro sportivo senza ricordarlo con affetto.
Persino Ginobili, con i suoi tre anelli NBA, ha spesso ricordato Pasquale come una persona che, pur non essendo sotto i riflettori, ha avuto un impatto fondamentale nella crescita caratteriale di giocatori che hanno fatto la storia della pallacanestro italiana e mondiale.
La sua visita al Centro Sportivo Modena, qualche mese fa, per ricevere il premio che meritava da tempo, assume oggi un significato ancora più profondo e romantico.
Dopo averglielo “scippato”, Pasquale ha potuto vedere ancora il suo “bambino”, cambiato forse, ma comunque lì, dopo una vita dedicata con amore e passione a mantenerlo in perfette condizioni.
Pasquale se ne è andato in punta di piedi, senza mai sollevare polemiche o lamentarsi, un uomo pragmatico e al contempo capace di dimostrare affetto per le persone e per lo sport che ha amato.
Il pensiero di tutta la redazione di Radio e Video Touring va alla sua meravigliosa famiglia, che ha avuto il privilegio di condividere la vita con lui.
Paolo Frascati
La recente sentenza sull’omicidio di Giulia Cecchettin, in cui il colpevole, Filippo Turetta, è stato accusato di un omicidio senza “crudeltà” e con una motivazione legata alla “inesperienza”, ha suscitato una forte indignazione pubblica.
La reazione, soprattutto sui social e nei media, è stata immediata e spesso basata su emozioni forti, senza una reale comprensione dei dettagli giuridici del caso.
Ma questa indignazione, seppur comprensibile a livello umano, è davvero giustificata?
La parola crudeltà, nel linguaggio giuridico, ha un significato ben diverso rispetto all’uso comune che ne facciamo nel linguaggio quotidiano.
Quando sentiamo parlare di “crudeltà” in relazione a un omicidio, la nostra mente è inevitabilmente attratta dall’immagine di una sofferenza inflitta con premeditazione e intenzionalità. Tuttavia, nella legge, il concetto di “crudeltà” implica una serie di criteri specifici che non sempre corrispondono alla nostra percezione emotiva del crimine.
La sentenza, purtroppo, è stata fraintesa da molti, che hanno letto il verdetto come un’ingiustizia, non comprendendo la distinzione tra l’emozione umana e le necessità legali.
Turetta ha ottenuto il massimo della pena, segno che la giustizia ha preso atto della gravità dell’omicidio e della responsabilità dell’assassino.
Questa sentenza, peraltro, potrebbe segnare un punto di svolta importante nella lotta contro il femminicidio anche grazie all’impatto mediatico che sta avendo.
Il sistema giuridico sembra rifiutare la narrazione del “raptus di gelosia” e dell’omicidio passionale a differrenza del passato, dove molti crimini simili sono stati giustificati con l’idea che il colpevole avesse agito sotto un’onda emotiva incontrollabile, una reazione impulsiva per amore o gelosia.
Ora, invece, la sentenza ha chiarito che la responsabilità di Turetta è totale, rifiutando ogni attenuante.
Il fenomeno dell’indignazione pubblica, che esplode rapidamente nei casi di crimini di questo tipo, è oggi alimentato da una cultura che spesso privilegia le reazioni emotive rispetto alla riflessione razionale.
La voglia di indignarsi per il gusto stesso di farlo è diventata una prassi, alimentata da una ricerca di sensazioni forti e immediate.
Questo meccanismo sociale è ormai tanto diffuso che non ci fermiamo più a riflettere, vomitando odio verso tutto e tutti senza una ricerca più profonda.
Ma la responsabilità di questa ondata di indignazione va cercata anche nei media e nei mezzi di informazione, che hanno una parte fondamentale nel costruire il clima emotivo che circonda certi casi.
Spesso, i giornali, i programmi televisivi e i social media tendono a semplificare e a drammatizzare i fatti, alimentando la rabbia e la frustrazione del pubblico senza fornire una comprensione completa delle circostanze.
Le notizie vengono presentate con titoli sensazionalistici, pronti a scatenare una reazione immediata, ma raramente vengono esplorati i dettagli più profondi o le motivazioni giuridiche che sottendono una sentenza.
In questo contesto, i media non solo amplificano l’indignazione, ma contribuiscono anche a distorcere la percezione che il pubblico ha della giustizia.
Il “clickbait” e la ricerca del sensazionalismo sono diventati parte integrante del nostro consumo mediatico, che è orientato solo alla reazione immediata, al “dramma”, al conflitto.
A questo punto, è utile guardare a Videodrome (1983), film capolavoro di David Cronenberg, che affronta temi di eccitazione, violenza, tecnologia e superficialità, una vera profezia di quello che avremmo vissuto più di 40 anni dopo.
Nel film, Nicky (Debbie Harry) descrive come l’umanità stia cercando costantemente emozioni sempre più forti, ma sempre più disilluse.
La sua riflessione sul fatto che la nostra società abbia smesso di ricercare emozioni “autentiche”, preferendo invece l’eccitazione per l’eccitazione stessa, è estremamente pertinente in questo contesto.
La riflessione del Professor O’Blivion sempre in Videodrome appare quasi come una profezia che si è avverata, e risuona con inquietante veridicità nel contesto moderno ed è estremamente attinente all’indignazione riguardo la sentenza di Turetta.
Quando afferma che “lo schermo televisivo è l’unico vero occhio dell’uomo”, non si riferisce solo al mezzo di comunicazione, ma a come la nostra percezione della realtà sia ormai mediata dalla televisione e dai media.
In un’epoca dove la distorsione della realtà è quotidiana e l’informazione è filtrata, la televisione o i social media diventano l’unica finestra attraverso cui osserviamo il mondo, determinando la nostra comprensione e reazione agli eventi.
Questo potere di manipolare le emozioni, influenzare l’indignazione e costruire narrazioni distorte è ciò che fa dei media una forza tanto potente quanto pericolosa.
Questo film ci avverte di come la realtà possa essere consumata senza essere veramente compresa e di come ci ritroviamo ad agire non sulla base di una riflessione profonda, ma di un’emozione estemporanea, forgiata dal sensazionalismo mediatico.
Così come ci avverte della pericolosità di una società che cerca il piacere facile e immediato a scapito della profondità, anche l’indignazione pubblica che esplode senza cognizione di causa può essere altrettanto pericolosa.
Siamo pronti a saltare alla conclusione che la giustizia sia stata travisata alimentando lotte di qualsiasi tipo quando invece in casi come questi la cosa più importante dovrebbe essere l’unione.
La sentenza nel caso di Turetta potrebbe non piacere, ma è il risultato di una riflessione giuridica che ha preso in considerazione le circostanze specifiche del crimine.
La ricerca di emozioni forti, come quella descritta in Videodrome, è una manifestazione di una cultura che ormai preferisce l’eccitazione all’autentica comprensione ma solo prendendoci il tempo di riflettere con attenzione e distinguere emozione e giustizia potremo sperare di costruire una società che sappia affrontare le difficoltà con maggiore lucidità e consapevolezza.
Il 16 gennaio 2025 è morto David Lynch, un visionario assoluto, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi.
Era da molto tempo affetto da un enfisema polmonare a causa del suo tabagismo, nato all’età di 8 anni e che lo portava a fumare 2 pacchetti al giorno.
Anche questo può descrivere l’artista incredibile che è stato: sapeva che si stesse facendo del male, ma ha continuato imperterrito, come ha continuato imperterrito a donare alla gente le sue opere meravigliose, cosciente degli incubi che avrebbe provocato allo spettatore. Nasce come pittore e non studia mai cinema, ma era chiaramente un predestinato.
Iniziando con dei cortometraggi anch’essi stupendi, il regista americano sforna la sua prima opera e, ovviamente, il primo dei tanti capolavori della sua filmografia.
“Eraserhead – La mente che cancella” (1977) è il suo primo film: un viaggio, anzi, un incubo nella paternità, nei dubbi e nelle paure che può avere un aspirante padre o un neo-papà, una spirale di follia, un film sperimentale che, alla fine, racchiude tutte le tecniche e la sua filosofia, poi riversate in tutti i suoi altri film.
l film è ricco di immagini fortemente simboliche: la città di Eraserhead è un paesaggio urbano cupo, caratterizzato da ambienti industriali e inquietanti, mentre il suono, che gioca un ruolo fondamentale, crea un’atmosfera che si percepisce come alienante. La colonna sonora di Alan Splet, fatta di rumori meccanici e suoni inquietanti, amplifica il senso di angoscia, immergendo lo spettatore in un mondo che sembra essere in preda al caos.
Il tema centrale del film è la paura dell’inadeguatezza e dell’isolamento. Henry, incapace di gestire la paternità e la sua situazione, è intrappolato in un’esistenza che sembra una continua minaccia, sia psicologica che fisica. Il mostro bambino diventa una sorta di allegoria per le ansie umane, la paura dell’incomprensibilità della vita e l’incapacità di controllarla.
Lynch gioca con il confine tra sogno e realtà, creando un mondo che potrebbe essere letto come una distorsione psicologica della mente del protagonista. Le immagini sono spesso oniriche, ambigue e non sempre spiegate, lasciando spazio a molteplici interpretazioni. Ogni scena sembra avere un significato che sfida la comprensione razionale, un tratto distintivo che diventerà una costante nei suoi lavori successivi.
“The Elephant Man” (1980) è un altro capolavoro, ma stavolta si discosta dall’inquietante surrealismo di Eraserhead per abbracciare una storia più realistica, anche se sempre profondamente emotiva e umana. Il film racconta la vera storia di John Merrick, un uomo che nel XIX secolo divenne famoso per le sue deformità fisiche estreme, che lo rendevano simile a un “mostro” agli occhi della società.
Il protagonista, interpretato magistralmente da John Hurt, è un uomo che soffre di una malattia rara chiamata neurofibromatosi, che causa una deformazione straordinaria del suo corpo. Merrick vive inizialmente come una sorta di attrazione da circo, sfruttato e abusato, ma la sua vita prende una piega diversa quando un giovane dottore, Frederick Treves (Anthony Hopkins), lo scopre e lo porta in ospedale, dove diventa il soggetto di studi medici.
Il film esplora il conflitto tra la brutalità della società nei confronti di Merrick, che viene trattato come una curiosità morbosa, e la sua straordinaria umanità. Lynch, pur trattando temi di emarginazione e sofferenza, infonde al suo personaggio una profondità emotiva che fa emergere la sua dignità e il suo desiderio di essere trattato come un essere umano, non come un mostro. Il personaggio di Merrick è rappresentato con una grande delicatezza, mostrando non solo la sua sofferenza fisica, ma anche la sua solitudine e il suo desiderio di essere amato e rispettato.
Il terzo film della sua filmografia è forse il meno riuscito: “Dune” (1984), opera che oggi sta avendo un grande successo grazie al riadattamento di Denis Villeneuve.
Sebbene il film non sia stato un successo immediato e abbia ricevuto critiche contrastanti, con il passare degli anni è diventato un cult per molti appassionati di cinema, grazie alla sua visione unica e all’approccio distintivo.
La storia è ambientata in un futuro lontano, in un impero galattico che controlla un pianeta desertico chiamato Arrakis. Questo pianeta è l’unica fonte dell’ “melange”, o spezia, una sostanza che è cruciale per il viaggio spaziale e per l’economia dell’universo conosciuto.
Il giovane Paul Atreides (Kyle MacLachlan), erede della Casa Atreides, si trova al centro di una lotta politica e di un conflitto interstellare quando la sua famiglia viene tradita e distrutta dalla Casa Harkonnen, rivale dei Atreides.
Paul dovrà affrontare il destino che gli è stato prefigurato, diventando una figura messianica e un leader rivoluzionario.
“Velluto blu” (1986) è uno dei film più iconici di Lynch, un thriller psicologico che mescola il noir con il surreale.
La storia ruota attorno a Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan), un giovane che scopre un orecchio mozzato in un campo e si coinvolge in un misterioso caso legato a una cantante di club, Dorothy Vallens (Isabella Rossellini).
Mentre indaga, Jeffrey si imbatte in Frank Booth (Dennis Hopper), un criminale psicotico, e si trova immerso in un mondo sotterraneo di violenza, perversione e follia.
Il film esplora temi di dualità e corruzione, contrastando l’apparente normalità di una cittadina con il lato oscuro che si cela sotto la superficie. La fotografia, con il suo uso distintivo di luci e ombre, e la colonna sonora di Angelo Badalamenti, con il tema musicale inquietante, contribuiscono a creare un’atmosfera di tensione e ambiguità.
Un racconto sul desiderio, il controllo e la discesa nella mente distorta, un film che sfida la visione tradizionale del “sogno americano” e lascia lo spettatore turbato e pensieroso.
“Cuore selvaggio” (1990) è un film di David Lynch che mescola il road movie con il noir e l’assurdo.
Racconta la storia di Sailor (Nicolas Cage) e Lula (Laura Dern), due giovani innamorati che fuggono da una serie di minacce, tra cui la madre di Lula, una donna ossessionata dal controllo e dai traumi del passato.
La coppia attraversa gli Stati Uniti, affrontando incontri surreali e violenti, mentre si confrontano con l’amore, la libertà e la follia.
Il film è caratterizzato dal tipico stile visivo e narrativo di Lynch, con un tono grottesco e momenti di estrema violenza, ma anche di puro romanticismo.
Il mix di surrealismo, simbolismo e umorismo nero crea una riflessione sul destino e sull’ossessione, mentre la colonna sonora, con brani rock e blues, accentua il senso di ribellione e passione che anima i protagonisti.
Un film che oscilla tra il sogno e l’incubo, esplorando la natura destrutturata del desiderio e della libertà.
“Twin Peaks” (1990-1991; 2017) ha segnato un prima e un dopo nella storia della televisione seriale.
Con “Twin Peaks” Lynch ha ridefinito cosa una serie TV potesse essere, creando un vero e proprio culto.
La serie ha portato nel mainstream un mix di surreale, mistero e introspezione psicologica mai visto prima, influenzando generazioni di autori e spettatori. Tutti hanno sentito anche solo una volta Laura Palmer.
La terza stagione, intitolata “The Return”, ha ulteriormente spinto i confini del medium televisivo, con episodi sperimentali come il celebre episodio 8, un viaggio visivo e sonoro che racconta l’origine del male.
Nel 1992 torna al mondo di Twin Peaks con “Twin Peaks: fuoco cammina con me”, prequel della serie che sconvolge lo spettatore con la cruda rappresentazione della discesa agli inferi di Laura Palmer.
Il film si concentra sugli ultimi giorni di vita della giovane, rivelando il peso insopportabile dei suoi segreti e delle sue sofferenze. È un’opera disturbante, che amplifica il lato oscuro della serie originale.
“Strade Perdute” (1997) è un labirinto mentale tra identità spezzate e paure recondite, in cui la narrazione segue percorsi non lineari e sfida costantemente le aspettative dello spettatore.
La storia di Fred Madison, accusato dell’omicidio della moglie, si trasforma in un intricato gioco di sdoppiamenti e simbolismi.
Ogni scena sembra carica di significati nascosti, dove il tempo si distorce e il pubblico è costretto a navigare in un mare di enigmi. La violenza, l’amore, la morte e la vendetta si mescolano in una danza macabra che non offre risposte facili, ma invita a una riflessione profonda su come percepiamo la realtà, le emozioni e il nostro posto nel mondo. In questo modo, Strade Perdute non è solo un thriller psicologico, ma anche una meditazione sulla psiche umana e sulle forze oscure che la governano.
“Una storia vera” (1999) è un film che si distacca dalle sue consuete atmosfere surreali per esplorare una narrazione più semplice e toccante, pur mantenendo il suo stile unico.
La storia segue Alvin Straight (Richard Farnsworth), un anziano contadino dell’Iowa che intraprende un lungo viaggio in trattore per riavvicinarsi al fratello malato. Il film si concentra sul tema della famiglia, della redenzione e dell’invecchiamento, con una riflessione silenziosa e profonda sulla vita e la morte.
Nonostante l’apparente linearità della trama, Lynch infonde il film con una qualità riflessiva, con l’uso di paesaggi rurali e momenti di solitudine che creano un’atmosfera di malinconia e meditazione. Una storia vera è una rara incursione del regista nel dramma realistico, ma la sua capacità di evocare emozioni profonde e di esplorare la condizione umana è evidente anche in questo contesto più sobrio.
“Mulholland Drive” (2001) è probabilmente il suo lavoro più celebrato, un sogno lucido e inquietante che esplora le illusioni e le delusioni di Hollywood.
Betty (Naomi Watts), un’aspirante attrice, arriva a Los Angeles e si ritrova coinvolta in un mistero insieme a una donna smemorata. Il film fonde realtà e fantasia, facendo emergere i lati oscuri del sogno hollywoodiano.
La Los Angeles di Lynch è un luogo ambiguo, pieno di speranze infrante, e il film esplora la solitudine e la disillusione che si nascondono dietro le luci della città.
Con la sua narrazione non lineare e la ricca simbologia, Mulholland Drive è un’opera che sfida e affascina, lasciando un’impronta indelebile nella mente dello spettatore e spaventando con uno degli jumpscares più spaventosi di sempre.
“Inland Empire – L’impero della mente” (2006) è un’opera densa e sfuggente, che sfida ogni convenzione narrativa.
Lynch utilizza una struttura frammentata, senza una trama chiara o risoluzioni facili, costringendo lo spettatore a navigare in un mondo dove il tempo e lo spazio si confondono.
La performance di Laura Dern è al centro del film, con un’interpretazione che sfuma tra il reale e il surreale, mentre il suo personaggio si perde in una spirale di esperienze bizzarre e inquietanti.
Le immagini, spesso volutamente crude e sovraesposte, e il suono, ricco di tensione, sono usati da Lynch per creare una sensazione di angoscia crescente.
Il film esplora la dissoluzione dell’identità, i desideri oscuri e le ossessioni nascoste dietro la facciata di Hollywood, ma anche la sensazione di essere intrappolati in un ciclo infinito di realtà multiple e narrazioni impossibili da decifrare.
Inland Empire è un’ode all’irrealtà, un film che non offre spiegazioni, ma che stimola riflessioni su come vediamo e costruiamo la realtà.
David Lynch non è stato e non è chiaramente per tutti: le sue opere hanno sempre sfidato lo spettatore a riflessioni profondissime, provocando disagio e inquietudine.
I suoi film sono stati sempre veri e propri incubi, mai sogni. Il sogno americano nei suoi film non esiste; al massimo esiste il galleggiamento in una situazione comunque oscura. Non esiste la luce, ma solo buio.
Tuttavia, è proprio in questa oscurità che ha trovato una bellezza unica, capace di far emergere emozioni viscerali e profonde.
Sono veramente pochi i registi che non saranno mai dimenticati, ma di certo Lynch è uno di questi.
La mente degli spettatori, questa volta, non cancellerà quello che è stato uno dei migliori artisti del 21° secolo.
“Sotto accusa”: quando il cinema denuncia la violenza fisica e psicologica sulle donne
Il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è un’occasione per riflettere su uno dei più grandi flagelli della nostra società. Da sempre, il cinema ha rappresentato uno specchio per i problemi sociali, dando voce a chi spesso rimane invisibile.
Tra i film che hanno saputo scuotere le coscienze spicca “Sotto accusa”, un’opera del 1988 diretta da Jonathan Kaplan, che resta tristemente attuale nella sua analisi della cultura della violenza sessuale e delle barriere che le vittime affrontano nella ricerca di giustizia.
“Sotto accusa” si ispira a un caso reale che sconvolse l’opinione pubblica americana negli anni ’80. Jodie Foster, in una delle sue interpretazioni più potenti e premiata con l’Oscar, dà vita a Sarah Tobias, una giovane donna che subisce uno stupro di gruppo in un bar, sotto gli occhi di numerosi testimoni che invece di aiutarla incitano i colpevoli.
Il film non si limita a raccontare l’atto di violenza, ma si concentra sul processo giudiziario e sulle dinamiche sociali che tendono a colpevolizzare la vittima. Sarah si ritrova a combattere non solo contro i suoi aggressori, ma contro i pregiudizi di una società che analizza il suo comportamento, il suo abbigliamento e le sue scelte personali per giustificare l’ingiustificabile.
“Sotto accusa” è un film che ci ricorda come la violenza non si manifesti esclusivamente attraverso gesti fisici. Anche la violenza psicologica lascia ferite profonde, spesso invisibili ma altrettanto devastanti.
La colpevolizzazione della vittima è una forma di violenza psicologica che Sarah affronta durante il processo. I tentativi di mettere in discussione il suo carattere e il suo stile di vita rappresentano un abuso emotivo che amplifica il trauma dello stupro.
Il film denuncia anche il peso dell’indifferenza sociale, che può trasformarsi in una forma di violenza simbolica. L’omertà dei testimoni nel bar, incapaci di intervenire o di prendere posizione, riflette una realtà in cui le vittime si trovano isolate e senza supporto.
La violenza psicologica, come quella subita da Sarah, non lascia segni visibili, ma mina la dignità, la sicurezza e il senso di valore personale delle donne. Questo tipo di violenza è spesso sottovalutato, ma ha conseguenze a lungo termine, come il senso di colpa, la depressione e il disturbo da stress post-traumatico.
Celebrando questa giornata, “Sotto accusa” ci invita a riflettere su due punti fondamentali:
La responsabilità collettiva: Ogni spettatore presente nel bar è complice della violenza, e il film ci ricorda che il silenzio e l’indifferenza sono anch’essi forme di violenza.
La multidimensionalità della violenza: Il film sottolinea come la violenza non sia soltanto fisica, ma anche emotiva, psicologica e istituzionale. La rivittimizzazione di Sarah da parte del sistema giudiziario e della società è una forma di abuso che merita la stessa attenzione del crimine iniziale.
A oltre trent’anni dalla sua uscita, “Sotto accusa” resta una pietra miliare del cinema di denuncia, ma la sua attualità dimostra che il cammino verso l’eliminazione della violenza sulle donne è ancora lungo.
Film come questo ci ricordano quanto sia fondamentale continuare a parlare, denunciare e agire.
La violenza, in tutte le sue forme, non è solo un problema delle vittime, ma una responsabilità collettiva che riguarda ogni angolo della società.
Oggi più che mai, il cinema ha il potere di sensibilizzare e ispirare azioni concrete.
“Sotto accusa” ci invita a non essere spettatori passivi della violenza, ma attori di un cambiamento necessario e urgente.
21 novembre 2003: un giorno che il cinema sudcoreano – e mondiale – non dimenticherà mai.
In questa data, Park Chan-Wook presenta al pubblico sudcoreano Oldboy, il secondo capitolo della sua celebre Trilogia della Vendetta.
Non un semplice film, ma un’esperienza viscerale, un’opera che squarcia le convenzioni del thriller e le ricompone in un mosaico di dolore e violenza.
Oldboy non è solo una storia di vendetta, è una spirale di follia, un enigma costruito come una tragedia greca.
La trama segue Oh Dae-su, un uomo comune, rapito senza motivo apparente e imprigionato per 15 anni in una stanza senza finestre.
Quando viene rilasciato, non cerca la libertà: vuole risposte, ma la vendetta che insegue è solo un tassello di un gioco sadico e crudele, orchestrato con precisione chirurgica.
Il film è tratto dall’omonimo manga giapponese, scritto da Garon Tsuchiya e illustrato da Nobuaki Minegishi.
Sebbene Park Chan-Wook prenda ispirazione dalla trama originale, la sua interpretazione è unica, amplificando il dramma psicologico e i temi morali con una profondità che trascende il medium originale.
“Ridi, e il mondo riderà con te. Piangi, e piangerai da solo.”
Con questa frase, il film apre un sipario che lascia intravedere tutta la solitudine e la brutalità dell’esistenza di Oh Dae-su.
“Fai molta attenzione a quello che fai. Perché un granello di sabbia può innescare una valanga.”
Una riflessione sulle conseguenze, sull’effetto domino delle azioni umane che, nell’universo vendicativo di Park Chan-wook, diventano micce pronte a esplodere.
“Non chiedermi perché ti ho imprigionato. Chiediti perché ti ho liberato.”
Una battuta che incarna perfettamente il gioco mentale tra i due protagonisti, un duello psicologico che culmina in uno dei finali più sconvolgenti della storia del cinema.
La musica è il cuore pulsante di Oldboy.
La colonna sonora, composta da Jo Yeong-Wook, accompagna il film con una delicatezza e una forza che amplificano le emozioni.
“The Last Waltz”, in particolare, è un brano iconico, una melodia malinconica e ipnotica che scandisce i momenti più intensi del film. Il waltz diventa un simbolo della danza tra vendetta e redenzione, un lento girotondo che trascina i protagonisti e il pubblico verso un inevitabile epilogo.
Oldboy è il cuore pulsante della trilogia di Park Chan-wook, composta da:
- “Mr. Vendetta” (2002)
Una storia brutale e spietata che esplora le conseguenze di un rapimento finito male. Qui la vendetta è dipinta come un virus: inevitabile, contagiosa, letale. - “Oldboy” (2003)
L’apice della trilogia, dove la vendetta diventa un’arte. Con una regia ipnotica e sequenze ormai leggendarie – come il piano sequenza del combattimento nel corridoio – Park trascina lo spettatore in un abisso di emozioni contrastanti. - “Lady Vendetta” (2005)
L’epilogo della trilogia è un inno alla redenzione. Geum-ja Lee, una donna accusata ingiustamente di omicidio, trama per anni un’elaborata vendetta contro il vero colpevole, ma lo fa con una lucidità quasi poetica.
Questi tre film, pur non essendo legati narrativamente, formano un trittico tematico.
Park esplora le molteplici sfaccettature della vendetta: come nasce, come consuma e, a volte, come libera.
A distanza di 21 anni, Oldboy rimane una pietra miliare del cinema mondiale. Ha influenzato registi di ogni parte del globo, ispirando rifacimenti e omaggi (come il controverso, per usare un eufemismo, remake di Spike Lee del 2013) che non può neanche minimamente paragonarsi alla potenza dell’originale, che non è solo un film, ma un’esperienza emotiva e filosofica che resta impressa nella memoria.
Il comunicato ufficiale n.276 del 18 novembre 2024 del Giudice Sportivo Regionale ha inflitto pesanti sanzioni alla Redel Viola Reggio Calabria, in seguito agli episodi accaduti durante la gara di ieri vinta contro la Basket School Messina di Serie B Interregionale.
Le decisioni disciplinari, che includono ammende, squalifiche di tesserati e persino una squalifica del campo, appaiono come una severa stangata per il club.
Le sanzioni principali
Tra i provvedimenti, spiccano:
- Ammenda di 225 euro per offese collettive frequenti del pubblico agli arbitri durante la gara.
- Ammenda di 6.000 euro per invasione di campo con aggressioni ai tesserati avversari. Il comunicato sottolinea la gravità dell’accaduto, con circa 20-30 sostenitori locali che hanno invaso il campo, arrivando a colpire un giocatore della Basket School Messina.
- Squalifica del campo per 4 gare: una punizione che influenzerà pesantemente il prosieguo della stagione, costringendo la squadra a disputare le partite casalinghe in campo neutro.
- Inibizione per il dirigente Domenico Porcino fino all’8 dicembre 2024, per un colpo al volto di un avversario, giudicato privo di attenuanti.
- Squalifica di 2 gare per Nikola Ivanaj, accusato di atti di violenza verso altri tesserati durante una rissa.
Il 17 novembre è una data molto importante per il mondo del cinema: due colossi come il regista Martin Scorsese e l’attore Danny DeVito celebrano il loro compleanno.
Scorsese, maestro indiscusso, compie 82 anni. Nato a New York nel 1942, ha trasformato il grande schermo in un palcoscenico per raccontare tutte le contraddizioni dell’essere umano, la violenza, il peccato.
Opere come Taxi Driver (1976) e Toro Scatenato (1980) sono diventate ormai dei veri e propri simboli culturali, mentre Quei bravi ragazzi (1990) ha ridefinito il concetto di film gangster.
Quasi tutti i film di Scorsese hanno come protagonisti personaggi tormentati, che ricercano negli altri o nelle loro azioni dei bisogni profondi.
Se Scorsese è il poeta del dramma, Danny DeVito è l’attore tragico capace di trasformare ogni ruolo in una performance memorabile.
Nato nel 1944 a Neptune, nel New Jersey, e con origini italiane, ha costruito una carriera straordinariamente versatile, tra commedie esilaranti e ruoli drammatici.
Film come Batman – Il ritorno (1992), dove interpreta il grottesco Pinguino, a cui è stata dedicata una serie TV che sta riscuotendo un discreto successo, uscita quest’anno in esclusiva su Sky il 30 settembre, o il film Matilde 6 mitica (1996) dimostrano la sua capacità di caratterizzare anche i ruoli più complessi.
Tra i suoi tanti ruoli spicca il monologo di The Big Kahuna (1999), uno dei monologhi più belli della storia del cinema in un film molto spesso sottovalutato, accanto a un Kevin Spacey straordinario.
DeVito interpreta Phil, un venditore esperto che riflette sulla vita, il lavoro e il significato dell’esistenza.
Nella scena del monologo, DeVito abbandona ogni maschera comica per offrirci 3 minuti e 30 secondi di riflessione sul lavoro, su come affrontare la vita, accettare le proprie vulnerabilità e vivere con autenticità.
Martin Scorsese e Danny DeVito rappresentano due lati dello stesso prisma: il primo con il suo sguardo profondo, il secondo con la sua capacità di trovare grandezza in ogni ruolo assegnatogli.
Entrambi, a modo loro, hanno reso il cinema un’arte capace di toccare le corde più profonde dello spettatore.
Due giganti che continuano a ispirare, ognuno con la loro voce unica, sperando che possano farlo per il più lungo tempo possibile.
Quando si parla di film horror non si può fare a meno di pensare ai famosi jumpscares, un espediente usato dai registi per spaventare lo spettatore facendolo saltare dalla sedia. Ma da dove proviene questa tecnica?
Il primo ad utilizzarla, in modo molto più intelligente e non abusandone, con una sola scena in tutto il film, è Jacques Tourneur, all’anagrafe Thomas Jacques, regista francese, nato oggi 12 novembre 1902, con il suo film più importante, il capolavoro Il bacio della pantera (1942).
La trama del film ruota attorno a Irena Dubrovna, una giovane serba (interpretata da Simone Simon) che vive a New York e lavora come illustratrice di moda. La sua vita si intreccia con quella di Oliver Reed, un ingegnere navale americano che si innamora di lei dopo un incontro casuale allo zoo, dove Irena sta osservando una pantera nera. Affascinato dal suo mistero, Oliver inizia a frequentarla, e i due si sposano rapidamente. Tuttavia, la vita matrimoniale è segnata da un problema serio: Irena è convinta di essere colpita da una maledizione antica, una leggenda del suo villaggio natale, che la trasformerebbe in una pantera ogni volta che si lascia andare a emozioni forti, come passione o rabbia.
La maledizione rappresenta per Irena un trauma profondo e mai risolto, legato alle sue origini e alla repressione dei suoi desideri. Questo problema genera frustrazione e conflitti nel rapporto con Oliver, che tenta di aiutare la moglie a liberarsi di queste paure, ma si rivolge presto ad Alice, una collega di lavoro con cui Irena sviluppa una gelosia crescente. Il triangolo amoroso esplode quando Oliver decide di portare Irena da uno psichiatra, il dottor Judd, per curare la sua fobia. Tuttavia, la terapia diventa un’arma a doppio taglio, aumentando l’inquietudine e la paranoia di Irena.
In Il bacio della pantera, Tourneur e il produttore Val Lewton costruiscono un orrore psicologico che si concentra su ciò che non è visibile. La famosa scena del “jumpscare” è ambientata in una strada buia: Irena, sospettosa del legame tra Oliver e Alice, segue quest’ultima di notte, accompagnata da suoni sinistri e da ombre che appaiono e scompaiono.
A un certo punto, il rumore improvviso di un autobus che frena interrompe il silenzio in modo scioccante, creando una tensione che si risolve solo parzialmente, la minaccia resta implicita. Un’altra scena celebre avviene nella piscina al chiuso: Alice, sola e terrorizzata, percepisce la presenza di Irena nelle vicinanze, sentendo strani versi e rumori, ma non vede nulla. Gli effetti sonori e visivi creano un’atmosfera di terrore crescente, culminando in un grido disperato di Alice, che chiama aiuto.
Tourneur e Lewton, limitati da un budget ridotto, fanno delle suggestioni il cuore della suspense, non solo in questo film ma anche in quelli successivi come Ho camminato con uno zombi e L’uomo leopardo, entrambi del 1943 diretti per la RKO Pictures.
Le tecniche che impiegano, come l’uso delle ombre, la costruzione della tensione attraverso suoni e immagini ambigue, e l’inserimento limitato di jumpscares, dimostrano che l’horror può spaventare in modo profondo senza far vedere il “mostro”.
Questi elementi rivelano il sottotesto psicologico della storia nella loro opera più grande: il terrore di Irena non è solo paura del proprio corpo, ma una rappresentazione del conflitto tra desiderio e repressione.
Il bacio della pantera è considerato un capolavoro perché incarna un modo elegante e originale di creare suspense.
A differenza degli horror odierni, che spesso fanno largo uso di jumpscares, Tourneur utilizza questo espediente con parsimonia e finezza, lasciando al pubblico il piacere di immaginare il terrore.
Esattamente 50 anni fa, allo Stade Tata Raphael di Kinshasa, nello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), si svolse uno degli eventi sportivi più leggendari di tutti i tempi: “The Rumble in the Jungle”. Così fu chiamato il combattimento tra George Foreman, campione in carica, e Muhammad Ali, il più grande pugile di sempre, che aspirava a riconquistare con forza il titolo dei pesi massimi.
All’incontro assistettero 60.000 spettatori dal vivo, mentre oltre un miliardo di persone lo seguì in diretta televisiva (un quarto della popolazione mondiale dell’epoca), rendendolo la trasmissione live più vista della storia fino a quel momento. Ancora oggi, il match viene ritrasmesso sui canali sportivi satellitari.
Il promotore dell’evento, Don King, riuscì a far firmare contratti separati a Ali e Foreman, promettendo un premio di cinque milioni di dollari, pur senza possedere la cifra. King dovette quindi cercare uno sponsor adeguato e trovò nel presidente dello Zaire, Mobutu Sese Seko, un sostenitore. Mobutu accolse con entusiasmo l’idea di ospitare l’incontro nel suo paese, consapevole del prestigio che avrebbe dato a sé e alla sua nazione.
A livello cinematografico, non sono molti i film sportivi considerati fondamentali, ma non è un caso che i più famosi riguardino proprio la boxe. Questo sport è infatti il più “cinematografico” di tutti: i rivali sono solo due e si scontrano in un ring, uno spazio ristretto che consente alla macchina da presa di catturare la paura, la determinazione e il dolore dei protagonisti. A differenza di sport di squadra come il calcio o la pallacanestro, o di sport individuali come il tennis (dove una rete separa i due avversari), la boxe permette un contatto fisico diretto, una lotta corpo a corpo che si svolge su un campo di battaglia delimitato.
Esempi iconici sono numerosi: uno dei più celebri è il capolavoro di Martin Scorsese, Toro scatenato, vincitore di due premi Oscar, un Golden Globe e due BAFTA. Rocky, diretto da John Avildsen, rimane un altro classico, con i successivi capitoli affidati allo stesso protagonista, Sylvester Stallone, che ha diretto Rocky II, Rocky III, Rocky IV e l’ultimo Rocky Balboa, lasciando tuttavia la regia di Rocky V ad Avildsen. Anche Million Dollar Baby, diretto e interpretato da Clint Eastwood insieme a Hilary Swank e Morgan Freeman, è una pellicola memorabile. Il film, ispirato alla raccolta Rope Burns: Stories from the Corner di F.X. Toole (pseudonimo di Jerry Boyd), racconta una storia drammatica e toccante del mondo della boxe, e ha ricevuto sette candidature agli Oscar nel 2005, vincendone quattro, tra cui miglior film e miglior regista.
Il pugilato, quindi, è uno sport che ha lasciato un segno indelebile nel cinema. La figura di Muhammad Ali, in particolare, continua a essere celebrata non solo come pugile straordinario ma come un simbolo di resistenza e audacia. La sua carriera ha influenzato generazioni di sportivi e appassionati, e il suo spirito ribelle ha permesso alla boxe di guadagnarsi un ruolo privilegiato nel mondo del cinema, dove il ring diventa il palco su cui va in scena l’eterna lotta dell’uomo per la sopravvivenza e la gloria.
Quando si parla di animazione, la maggior parte delle persone pensa subito alla Disney e ai film d’animazione americani. Tuttavia, chi conosce davvero questa tecnica, perché è importante chiarire che si tratta di una tecnica e non di un genere, e che i film d’animazione non sono esclusivamente per bambini e famiglie, riconosce nel cinema d’animazione giapponese una bellezza poetica e tecnica insuperabile.
È una forma di espressione che tocca temi maturi e profondi, offrendo narrazioni introspettive e universali.
Più di trent’anni fa nacque lo Studio Ghibli, il più importante studio d’animazione asiatico, il cui nome è ispirato alla passione di Hayao Miyazaki per l’aeronautica italiana. “Ghibli” era infatti il nome dato dai piloti italiani in Nord Africa a un vento caldo del deserto e anche agli aerei da ricognizione italiani durante la Seconda Guerra Mondiale.
Lo Studio Ghibli prende forma dall’incontro tra Miyazaki e Isao Takahata, entrambi allora impiegati presso la Toei Animation. Spinti dalla frustrazione verso i limiti creativi imposti dalla televisione, desideravano produrre un’animazione di altissima qualità che esplorasse le profondità della psiche umana e raccontasse gioie e dolori della vita. La consapevolezza che gli studi esistenti non permettessero questo livello di espressione artistica li portò ad avviare uno studio indipendente.
Takahata, nato proprio oggi, il 29 ottobre 1935, è l’autore di capolavori come La tomba per le lucciole (1988), Pom Poko (1994), I miei vicini Yamada (1999) e il suo ultimo lavoro La storia della principessa splendente (2013), che ha ricevuto una nomination per l’Oscar nella categoria “miglior film d’animazione” agli 87° Academy Awards.
Tuttavia, la sua opera più significativa è, a mio avviso, Pioggia di ricordi (1991), un film che potrebbe sembrare diretto da Wong Kar-Wai per il suo realismo. Takahata racconta il viaggio introspettivo di Taeko, una donna di 27 anni che decide di trascorrere le ferie lontano dal caos asfissiante di Tokyo, ritrovando il suo “luogo felice” in campagna.
Durante il viaggio, Taeko rivive i ricordi della sua infanzia e adolescenza, ripercorrendo le fasi salienti della sua vita e il rapporto disfunzionale con la sua famiglia per capire se il presente corrisponda ai desideri e sogni di quando era bambina. L’incontro con Toshio, un cugino di secondo grado, sembra prospettare per lei l’inizio di una nuova vita, più focalizzata sugli affetti e su una risolutezza che le era mancata in passato.
Con Pioggia di ricordi, Takahata ci invita a riflettere su come i nostri ricordi influenzino il presente e sulle scelte che ci portano a essere chi siamo.
La sua visione dell’animazione giapponese, intrisa di realismo e simbolismo, riesce a trasmettere messaggi profondi che toccano il cuore di ogni spettatore.
Il cinema d’animazione giapponese, grazie a maestri come Takahata, si conferma una forma d’arte matura e poetica, capace di esplorare il mondo interiore dell’essere umano e, al contempo, di mantenere una straordinaria universalità.