Il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è un’occasione per riflettere su uno dei più grandi flagelli della nostra società. Da sempre, il cinema ha rappresentato uno specchio per i problemi sociali, dando voce a chi spesso rimane invisibile.
Tra i film che hanno saputo scuotere le coscienze spicca “Sotto accusa”, un’opera del 1988 diretta da Jonathan Kaplan, che resta tristemente attuale nella sua analisi della cultura della violenza sessuale e delle barriere che le vittime affrontano nella ricerca di giustizia.
“Sotto accusa” si ispira a un caso reale che sconvolse l’opinione pubblica americana negli anni ’80. Jodie Foster, in una delle sue interpretazioni più potenti e premiata con l’Oscar, dà vita a Sarah Tobias, una giovane donna che subisce uno stupro di gruppo in un bar, sotto gli occhi di numerosi testimoni che invece di aiutarla incitano i colpevoli.
Il film non si limita a raccontare l’atto di violenza, ma si concentra sul processo giudiziario e sulle dinamiche sociali che tendono a colpevolizzare la vittima. Sarah si ritrova a combattere non solo contro i suoi aggressori, ma contro i pregiudizi di una società che analizza il suo comportamento, il suo abbigliamento e le sue scelte personali per giustificare l’ingiustificabile.
“Sotto accusa” è un film che ci ricorda come la violenza non si manifesti esclusivamente attraverso gesti fisici. Anche la violenza psicologica lascia ferite profonde, spesso invisibili ma altrettanto devastanti.
La colpevolizzazione della vittima è una forma di violenza psicologica che Sarah affronta durante il processo. I tentativi di mettere in discussione il suo carattere e il suo stile di vita rappresentano un abuso emotivo che amplifica il trauma dello stupro.
Il film denuncia anche il peso dell’indifferenza sociale, che può trasformarsi in una forma di violenza simbolica. L’omertà dei testimoni nel bar, incapaci di intervenire o di prendere posizione, riflette una realtà in cui le vittime si trovano isolate e senza supporto.
La violenza psicologica, come quella subita da Sarah, non lascia segni visibili, ma mina la dignità, la sicurezza e il senso di valore personale delle donne. Questo tipo di violenza è spesso sottovalutato, ma ha conseguenze a lungo termine, come il senso di colpa, la depressione e il disturbo da stress post-traumatico.
Celebrando questa giornata, “Sotto accusa” ci invita a riflettere su due punti fondamentali:
La responsabilità collettiva: Ogni spettatore presente nel bar è complice della violenza, e il film ci ricorda che il silenzio e l’indifferenza sono anch’essi forme di violenza.
La multidimensionalità della violenza: Il film sottolinea come la violenza non sia soltanto fisica, ma anche emotiva, psicologica e istituzionale. La rivittimizzazione di Sarah da parte del sistema giudiziario e della società è una forma di abuso che merita la stessa attenzione del crimine iniziale.
A oltre trent’anni dalla sua uscita, “Sotto accusa” resta una pietra miliare del cinema di denuncia, ma la sua attualità dimostra che il cammino verso l’eliminazione della violenza sulle donne è ancora lungo.
Film come questo ci ricordano quanto sia fondamentale continuare a parlare, denunciare e agire.
La violenza, in tutte le sue forme, non è solo un problema delle vittime, ma una responsabilità collettiva che riguarda ogni angolo della società.
Oggi più che mai, il cinema ha il potere di sensibilizzare e ispirare azioni concrete.
“Sotto accusa” ci invita a non essere spettatori passivi della violenza, ma attori di un cambiamento necessario e urgente.
Cinema
21 novembre 2003: un giorno che il cinema sudcoreano – e mondiale – non dimenticherà mai.
In questa data, Park Chan-Wook presenta al pubblico sudcoreano Oldboy, il secondo capitolo della sua celebre Trilogia della Vendetta.
Non un semplice film, ma un’esperienza viscerale, un’opera che squarcia le convenzioni del thriller e le ricompone in un mosaico di dolore e violenza.
Oldboy non è solo una storia di vendetta, è una spirale di follia, un enigma costruito come una tragedia greca.
La trama segue Oh Dae-su, un uomo comune, rapito senza motivo apparente e imprigionato per 15 anni in una stanza senza finestre.
Quando viene rilasciato, non cerca la libertà: vuole risposte, ma la vendetta che insegue è solo un tassello di un gioco sadico e crudele, orchestrato con precisione chirurgica.
Il film è tratto dall’omonimo manga giapponese, scritto da Garon Tsuchiya e illustrato da Nobuaki Minegishi.
Sebbene Park Chan-Wook prenda ispirazione dalla trama originale, la sua interpretazione è unica, amplificando il dramma psicologico e i temi morali con una profondità che trascende il medium originale.
“Ridi, e il mondo riderà con te. Piangi, e piangerai da solo.”
Con questa frase, il film apre un sipario che lascia intravedere tutta la solitudine e la brutalità dell’esistenza di Oh Dae-su.
“Fai molta attenzione a quello che fai. Perché un granello di sabbia può innescare una valanga.”
Una riflessione sulle conseguenze, sull’effetto domino delle azioni umane che, nell’universo vendicativo di Park Chan-wook, diventano micce pronte a esplodere.
“Non chiedermi perché ti ho imprigionato. Chiediti perché ti ho liberato.”
Una battuta che incarna perfettamente il gioco mentale tra i due protagonisti, un duello psicologico che culmina in uno dei finali più sconvolgenti della storia del cinema.
La musica è il cuore pulsante di Oldboy.
La colonna sonora, composta da Jo Yeong-Wook, accompagna il film con una delicatezza e una forza che amplificano le emozioni.
“The Last Waltz”, in particolare, è un brano iconico, una melodia malinconica e ipnotica che scandisce i momenti più intensi del film. Il waltz diventa un simbolo della danza tra vendetta e redenzione, un lento girotondo che trascina i protagonisti e il pubblico verso un inevitabile epilogo.
Oldboy è il cuore pulsante della trilogia di Park Chan-wook, composta da:
- “Mr. Vendetta” (2002)
Una storia brutale e spietata che esplora le conseguenze di un rapimento finito male. Qui la vendetta è dipinta come un virus: inevitabile, contagiosa, letale. - “Oldboy” (2003)
L’apice della trilogia, dove la vendetta diventa un’arte. Con una regia ipnotica e sequenze ormai leggendarie – come il piano sequenza del combattimento nel corridoio – Park trascina lo spettatore in un abisso di emozioni contrastanti. - “Lady Vendetta” (2005)
L’epilogo della trilogia è un inno alla redenzione. Geum-ja Lee, una donna accusata ingiustamente di omicidio, trama per anni un’elaborata vendetta contro il vero colpevole, ma lo fa con una lucidità quasi poetica.
Questi tre film, pur non essendo legati narrativamente, formano un trittico tematico.
Park esplora le molteplici sfaccettature della vendetta: come nasce, come consuma e, a volte, come libera.
A distanza di 21 anni, Oldboy rimane una pietra miliare del cinema mondiale. Ha influenzato registi di ogni parte del globo, ispirando rifacimenti e omaggi (come il controverso, per usare un eufemismo, remake di Spike Lee del 2013) che non può neanche minimamente paragonarsi alla potenza dell’originale, che non è solo un film, ma un’esperienza emotiva e filosofica che resta impressa nella memoria.
Il 17 novembre è una data molto importante per il mondo del cinema: due colossi come il regista Martin Scorsese e l’attore Danny DeVito celebrano il loro compleanno.
Scorsese, maestro indiscusso, compie 82 anni. Nato a New York nel 1942, ha trasformato il grande schermo in un palcoscenico per raccontare tutte le contraddizioni dell’essere umano, la violenza, il peccato.
Opere come Taxi Driver (1976) e Toro Scatenato (1980) sono diventate ormai dei veri e propri simboli culturali, mentre Quei bravi ragazzi (1990) ha ridefinito il concetto di film gangster.
Quasi tutti i film di Scorsese hanno come protagonisti personaggi tormentati, che ricercano negli altri o nelle loro azioni dei bisogni profondi.
Se Scorsese è il poeta del dramma, Danny DeVito è l’attore tragico capace di trasformare ogni ruolo in una performance memorabile.
Nato nel 1944 a Neptune, nel New Jersey, e con origini italiane, ha costruito una carriera straordinariamente versatile, tra commedie esilaranti e ruoli drammatici.
Film come Batman – Il ritorno (1992), dove interpreta il grottesco Pinguino, a cui è stata dedicata una serie TV che sta riscuotendo un discreto successo, uscita quest’anno in esclusiva su Sky il 30 settembre, o il film Matilde 6 mitica (1996) dimostrano la sua capacità di caratterizzare anche i ruoli più complessi.
Tra i suoi tanti ruoli spicca il monologo di The Big Kahuna (1999), uno dei monologhi più belli della storia del cinema in un film molto spesso sottovalutato, accanto a un Kevin Spacey straordinario.
DeVito interpreta Phil, un venditore esperto che riflette sulla vita, il lavoro e il significato dell’esistenza.
Nella scena del monologo, DeVito abbandona ogni maschera comica per offrirci 3 minuti e 30 secondi di riflessione sul lavoro, su come affrontare la vita, accettare le proprie vulnerabilità e vivere con autenticità.
Martin Scorsese e Danny DeVito rappresentano due lati dello stesso prisma: il primo con il suo sguardo profondo, il secondo con la sua capacità di trovare grandezza in ogni ruolo assegnatogli.
Entrambi, a modo loro, hanno reso il cinema un’arte capace di toccare le corde più profonde dello spettatore.
Due giganti che continuano a ispirare, ognuno con la loro voce unica, sperando che possano farlo per il più lungo tempo possibile.
Quando si parla di film horror non si può fare a meno di pensare ai famosi jumpscares, un espediente usato dai registi per spaventare lo spettatore facendolo saltare dalla sedia. Ma da dove proviene questa tecnica?
Il primo ad utilizzarla, in modo molto più intelligente e non abusandone, con una sola scena in tutto il film, è Jacques Tourneur, all’anagrafe Thomas Jacques, regista francese, nato oggi 12 novembre 1902, con il suo film più importante, il capolavoro Il bacio della pantera (1942).
La trama del film ruota attorno a Irena Dubrovna, una giovane serba (interpretata da Simone Simon) che vive a New York e lavora come illustratrice di moda. La sua vita si intreccia con quella di Oliver Reed, un ingegnere navale americano che si innamora di lei dopo un incontro casuale allo zoo, dove Irena sta osservando una pantera nera. Affascinato dal suo mistero, Oliver inizia a frequentarla, e i due si sposano rapidamente. Tuttavia, la vita matrimoniale è segnata da un problema serio: Irena è convinta di essere colpita da una maledizione antica, una leggenda del suo villaggio natale, che la trasformerebbe in una pantera ogni volta che si lascia andare a emozioni forti, come passione o rabbia.
La maledizione rappresenta per Irena un trauma profondo e mai risolto, legato alle sue origini e alla repressione dei suoi desideri. Questo problema genera frustrazione e conflitti nel rapporto con Oliver, che tenta di aiutare la moglie a liberarsi di queste paure, ma si rivolge presto ad Alice, una collega di lavoro con cui Irena sviluppa una gelosia crescente. Il triangolo amoroso esplode quando Oliver decide di portare Irena da uno psichiatra, il dottor Judd, per curare la sua fobia. Tuttavia, la terapia diventa un’arma a doppio taglio, aumentando l’inquietudine e la paranoia di Irena.
In Il bacio della pantera, Tourneur e il produttore Val Lewton costruiscono un orrore psicologico che si concentra su ciò che non è visibile. La famosa scena del “jumpscare” è ambientata in una strada buia: Irena, sospettosa del legame tra Oliver e Alice, segue quest’ultima di notte, accompagnata da suoni sinistri e da ombre che appaiono e scompaiono.
A un certo punto, il rumore improvviso di un autobus che frena interrompe il silenzio in modo scioccante, creando una tensione che si risolve solo parzialmente, la minaccia resta implicita. Un’altra scena celebre avviene nella piscina al chiuso: Alice, sola e terrorizzata, percepisce la presenza di Irena nelle vicinanze, sentendo strani versi e rumori, ma non vede nulla. Gli effetti sonori e visivi creano un’atmosfera di terrore crescente, culminando in un grido disperato di Alice, che chiama aiuto.
Tourneur e Lewton, limitati da un budget ridotto, fanno delle suggestioni il cuore della suspense, non solo in questo film ma anche in quelli successivi come Ho camminato con uno zombi e L’uomo leopardo, entrambi del 1943 diretti per la RKO Pictures.
Le tecniche che impiegano, come l’uso delle ombre, la costruzione della tensione attraverso suoni e immagini ambigue, e l’inserimento limitato di jumpscares, dimostrano che l’horror può spaventare in modo profondo senza far vedere il “mostro”.
Questi elementi rivelano il sottotesto psicologico della storia nella loro opera più grande: il terrore di Irena non è solo paura del proprio corpo, ma una rappresentazione del conflitto tra desiderio e repressione.
Il bacio della pantera è considerato un capolavoro perché incarna un modo elegante e originale di creare suspense.
A differenza degli horror odierni, che spesso fanno largo uso di jumpscares, Tourneur utilizza questo espediente con parsimonia e finezza, lasciando al pubblico il piacere di immaginare il terrore.
Esattamente 50 anni fa, allo Stade Tata Raphael di Kinshasa, nello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), si svolse uno degli eventi sportivi più leggendari di tutti i tempi: “The Rumble in the Jungle”. Così fu chiamato il combattimento tra George Foreman, campione in carica, e Muhammad Ali, il più grande pugile di sempre, che aspirava a riconquistare con forza il titolo dei pesi massimi.
All’incontro assistettero 60.000 spettatori dal vivo, mentre oltre un miliardo di persone lo seguì in diretta televisiva (un quarto della popolazione mondiale dell’epoca), rendendolo la trasmissione live più vista della storia fino a quel momento. Ancora oggi, il match viene ritrasmesso sui canali sportivi satellitari.
Il promotore dell’evento, Don King, riuscì a far firmare contratti separati a Ali e Foreman, promettendo un premio di cinque milioni di dollari, pur senza possedere la cifra. King dovette quindi cercare uno sponsor adeguato e trovò nel presidente dello Zaire, Mobutu Sese Seko, un sostenitore. Mobutu accolse con entusiasmo l’idea di ospitare l’incontro nel suo paese, consapevole del prestigio che avrebbe dato a sé e alla sua nazione.
A livello cinematografico, non sono molti i film sportivi considerati fondamentali, ma non è un caso che i più famosi riguardino proprio la boxe. Questo sport è infatti il più “cinematografico” di tutti: i rivali sono solo due e si scontrano in un ring, uno spazio ristretto che consente alla macchina da presa di catturare la paura, la determinazione e il dolore dei protagonisti. A differenza di sport di squadra come il calcio o la pallacanestro, o di sport individuali come il tennis (dove una rete separa i due avversari), la boxe permette un contatto fisico diretto, una lotta corpo a corpo che si svolge su un campo di battaglia delimitato.
Esempi iconici sono numerosi: uno dei più celebri è il capolavoro di Martin Scorsese, Toro scatenato, vincitore di due premi Oscar, un Golden Globe e due BAFTA. Rocky, diretto da John Avildsen, rimane un altro classico, con i successivi capitoli affidati allo stesso protagonista, Sylvester Stallone, che ha diretto Rocky II, Rocky III, Rocky IV e l’ultimo Rocky Balboa, lasciando tuttavia la regia di Rocky V ad Avildsen. Anche Million Dollar Baby, diretto e interpretato da Clint Eastwood insieme a Hilary Swank e Morgan Freeman, è una pellicola memorabile. Il film, ispirato alla raccolta Rope Burns: Stories from the Corner di F.X. Toole (pseudonimo di Jerry Boyd), racconta una storia drammatica e toccante del mondo della boxe, e ha ricevuto sette candidature agli Oscar nel 2005, vincendone quattro, tra cui miglior film e miglior regista.
Il pugilato, quindi, è uno sport che ha lasciato un segno indelebile nel cinema. La figura di Muhammad Ali, in particolare, continua a essere celebrata non solo come pugile straordinario ma come un simbolo di resistenza e audacia. La sua carriera ha influenzato generazioni di sportivi e appassionati, e il suo spirito ribelle ha permesso alla boxe di guadagnarsi un ruolo privilegiato nel mondo del cinema, dove il ring diventa il palco su cui va in scena l’eterna lotta dell’uomo per la sopravvivenza e la gloria.
Quando si parla di animazione, la maggior parte delle persone pensa subito alla Disney e ai film d’animazione americani. Tuttavia, chi conosce davvero questa tecnica, perché è importante chiarire che si tratta di una tecnica e non di un genere, e che i film d’animazione non sono esclusivamente per bambini e famiglie, riconosce nel cinema d’animazione giapponese una bellezza poetica e tecnica insuperabile.
È una forma di espressione che tocca temi maturi e profondi, offrendo narrazioni introspettive e universali.
Più di trent’anni fa nacque lo Studio Ghibli, il più importante studio d’animazione asiatico, il cui nome è ispirato alla passione di Hayao Miyazaki per l’aeronautica italiana. “Ghibli” era infatti il nome dato dai piloti italiani in Nord Africa a un vento caldo del deserto e anche agli aerei da ricognizione italiani durante la Seconda Guerra Mondiale.
Lo Studio Ghibli prende forma dall’incontro tra Miyazaki e Isao Takahata, entrambi allora impiegati presso la Toei Animation. Spinti dalla frustrazione verso i limiti creativi imposti dalla televisione, desideravano produrre un’animazione di altissima qualità che esplorasse le profondità della psiche umana e raccontasse gioie e dolori della vita. La consapevolezza che gli studi esistenti non permettessero questo livello di espressione artistica li portò ad avviare uno studio indipendente.
Takahata, nato proprio oggi, il 29 ottobre 1935, è l’autore di capolavori come La tomba per le lucciole (1988), Pom Poko (1994), I miei vicini Yamada (1999) e il suo ultimo lavoro La storia della principessa splendente (2013), che ha ricevuto una nomination per l’Oscar nella categoria “miglior film d’animazione” agli 87° Academy Awards.
Tuttavia, la sua opera più significativa è, a mio avviso, Pioggia di ricordi (1991), un film che potrebbe sembrare diretto da Wong Kar-Wai per il suo realismo. Takahata racconta il viaggio introspettivo di Taeko, una donna di 27 anni che decide di trascorrere le ferie lontano dal caos asfissiante di Tokyo, ritrovando il suo “luogo felice” in campagna.
Durante il viaggio, Taeko rivive i ricordi della sua infanzia e adolescenza, ripercorrendo le fasi salienti della sua vita e il rapporto disfunzionale con la sua famiglia per capire se il presente corrisponda ai desideri e sogni di quando era bambina. L’incontro con Toshio, un cugino di secondo grado, sembra prospettare per lei l’inizio di una nuova vita, più focalizzata sugli affetti e su una risolutezza che le era mancata in passato.
Con Pioggia di ricordi, Takahata ci invita a riflettere su come i nostri ricordi influenzino il presente e sulle scelte che ci portano a essere chi siamo.
La sua visione dell’animazione giapponese, intrisa di realismo e simbolismo, riesce a trasmettere messaggi profondi che toccano il cuore di ogni spettatore.
Il cinema d’animazione giapponese, grazie a maestri come Takahata, si conferma una forma d’arte matura e poetica, capace di esplorare il mondo interiore dell’essere umano e, al contempo, di mantenere una straordinaria universalità.
All’inizio del Novecento, il regista e attore russo Konstantin Sergeevič Stanislavskij sviluppò un rivoluzionario metodo di recitazione, destinato a ridefinire il teatro moderno e l’approccio alla recitazione. Il suo metodo, oggi chiamato “metodo Stanislavskij”, si basa sulla fusione tra il mondo interiore dell’attore e quello del personaggio, attraverso un’immersione psicologica e una rielaborazione intima delle emozioni.
In collaborazione con Nemirovič-Dančenko, Stanislavskij volle migliorare le condizioni di lavoro degli attori, promuovendo la disciplina, la conoscenza del testo e la moralità sul palco. Gli attori ricevevano spazi riservati e una biblioteca personale, e all’interno della compagnia veniva eliminata ogni gerarchia: chi interpretava un protagonista in uno spettacolo poteva essere relegato a una comparsa nel successivo. In questa fase, la regia di Stanislavskij era predominante, influenzando fortemente le interpretazioni degli attori.
Con l’inizio del XX secolo, però, Stanislavskij riconsiderò il ruolo del regista come guida e supporto piuttosto che come sostituto degli attori. Soprattutto grazie al lavoro su testi di Anton Čechov, come Il giardino dei ciliegi, comprese l’importanza di aiutare l’attore a esprimere al meglio le emozioni del personaggio. L’attore, secondo Stanislavskij, doveva rimanere sempre coinvolto emotivamente per evitare una recitazione meccanica e superficiale.
Per raggiungere questo scopo, il metodo prevedeva che l’attore approfondisse il personaggio, dandogli una vita interiore oltre al testo, e utilizzasse le proprie esperienze personali per collegarle alle emozioni del personaggio, in quella che Stanislavskij chiamava “memoria emotiva.” Questo processo portò alla formulazione di un primo abbozzo del metodo nel 1906, che continuò a perfezionare fino al 1911, quando iniziò a testare le sue tecniche con gli attori.
Negli anni ’30, Stanislavskij evolse ulteriormente il metodo verso quello che definì il “metodo delle azioni fisiche”.
Realizzò infatti che non era sempre semplice per gli attori mantenere il livello di coinvolgimento emotivo richiesto dal suo metodo originale. Così, decise di far fissare agli attori le emozioni attraverso azioni fisiche predefinite, come un bacio o un gesto passionale, su cui poi avrebbero sovrapposto il testo, facilitando il processo emotivo.
Molti attori sono noti per aver abbracciato questo metodo in modo estremo. Jack Nicholson in Shining, ad esempio, si immedesimò così profondamente nel ruolo che agitava l’ascia e si preparava intensamente prima delle riprese, creando un’atmosfera di tensione reale impaurendo la povera Shelley Duvall anche al di fuori dalle videocamere.
Un altro esempio lampante è quello di Marlon Brando in Il mio corpo ti appartiene dove l’attore interpreta Ken, soldato rimasto paraplegico in seguito al secondo conflitto mondiale. Per prepararsi al ruolo, Brando è rimasto per settimane “ricoverato” in un ospedale, spacciandosi per un reduce di guerra
Il metodo Stanislavskij ha lasciato un’impronta profonda sul mondo della recitazione, permettendo agli attori di immergersi intensamente nei personaggi e regalare al pubblico interpretazioni profonde e autentiche.
Tuttavia, il livello di coinvolgimento richiesto può avere effetti psicologici estremi. Evan Peters, per esempio, ha vissuto un forte disagio emotivo e persino sensi di colpa dopo aver interpretato Jeffrey Dahmer nella serie Netflix Monsters, sviluppando una depressione a causa della natura oscura e inquietante del personaggio.
Il metodo Stanislavskij, pur essendo uno strumento potente per l’attore, evidenzia così la sottile linea tra realtà e finzione, e l’importanza di mantenere un equilibrio emotivo per evitare che il processo di immedesimazione sfoci in un trauma reale.
Il cinema danese non ha mai goduto di un grande riconoscimento internazionale; era un cinema di nicchia, amato da cinefili e appassionati, almeno fino all’arrivo di Lars Von Trier. Lars nasce il 30 aprile 1956 a Kongens Lyngby, 10 km a nord di Copenaghen, in una famiglia tutt’altro che tradizionale: i suoi genitori, atei, nudisti e comunisti, credevano fermamente nel diritto del bambino all’autodeterminazione. Inoltre, sul letto di morte, sua madre gli rivela che il suo padre biologico non era Ulf Trier, come aveva sempre pensato, bensì Fritz Michael Hartmann, membro di una famiglia di compositori molto influente.
Secondo alcune fonti, la madre voleva “geni artistici” per suo figlio.
Questo insieme di esperienze profonde e conflittuali segna Lars, contribuendo a problematiche psicologiche e dipendenze, visibili anche nella sua filmografia.
Aggiunge il “Von” al suo nome come tributo al nonno, Sven Trier, che veniva affettuosamente chiamato così dagli amici. Lars è un artista tormentato e dalla vita inquieta: viaggia solo in auto o in treno, spesso in camper, come quando ogni anno attraversava l’Europa per partecipare al Festival di Cannes. Non prende mai l’aereo, evitando destinazioni lontane. Durante le riprese di “Le onde del destino”, ad esempio, una scena girata su una chiatta in mare aperto è stata diretta da lontano, con lui sulla terraferma. Non nasconde la propria ipocondria: convinto di avere sempre qualche grave malattia, se ne lamenta spesso. Inoltre, ha sofferto di depressione, alcolismo e tossicodipendenza.
Nell’agosto 2022, la Zentropa, casa di produzione cinematografica da lui fondata, ha confermato che Von Trier soffre del morbo di Parkinson. Questi ostacoli rappresentano un fardello per la vita privata del regista, ma nel suo cinema si traducono in autentici colpi di genio, in film che trattano di temi esistenziali in cui lo spettatore si immedesima.
Lars Von Trier è, a tutti gli effetti, un regista di genio, capace di plasmare la settima arte con i suoi difetti, problemi e una visione del mondo assolutamente pessimista, al livello di Leopardi. Nei suoi ultimi film, come Antichrist (2009), Melancholia (2011), Nymphomaniac (2013) e La Casa di Jack (2018), Von Trier non salva mai nessuno. Rappresenta visivamente il disagio esistenziale, non solo attraverso le interpretazioni degli attori ma anche tramite gli ambienti, come in Melancholia, film che parla della melanconia e della depressione, simboleggiate dal pianeta in rotta di collisione con la Terra, pronto a distruggerla. Kirsten Dunst, protagonista del film, vinse il premio come miglior attrice al Festival di Cannes per la sua interpretazione magistrale. Proprio al Festival di Cannes del 2011, Von Trier compie uno dei suoi passi falsi più clamorosi, affermando di “comprendere Hitler” e immedesimandosi nel dittatore tedesco, solo nel suo bunker prima della morte. Chiaramente provocatorio e influenzato dall’alcol, il commento di Von Trier era una richiesta di aiuto, espressione del suo sentirsi profondamente solo e sofferente. Claude Lelouch definì queste parole come un “suicidio professionale”. Successivamente, Von Trier chiarì di non avere simpatie naziste o antisemite, spiegando che si trattava di una battuta indirizzata ai giornalisti. A novembre 2014, in un’intervista al quotidiano danese Politiken, il regista confessò la sua lotta contro la dipendenza da droga e alcool e rivelò di essere sobrio da allora. Von Trier ammise di aver scritto molti dei suoi film sotto l’effetto di sostanze, rivelando che, con l’alcol, scrisse Dogville (2003) , uno dei suoi tanti capolavori, in appena 12 giorni, mentre per Nymphomaniac (2013), sobrio, gli ci vollero 18 mesi.
Lars Von Trier è, senza dubbio, uno dei più grandi visionari della storia del cinema. La sua opera sfida costantemente il pubblico e lo spinge verso riflessioni profonde su temi universali, sfruttando una narrazione visiva intensa e disturbante. Tuttavia, il suo genio è strettamente intrecciato ai demoni personali che lo tormentano. La sua arte, segnata da questa lotta interiore, lo ha reso un simbolo di sregolatezza e talento puro, ma anche un uomo fragile, alla ricerca di equilibrio.
La sua sofferenza traspare in ogni fotogramma, rendendo le sue opere potenti e uniche.
Il 21 ottobre 1984 ci lasciava uno dei migliori registi di sempre, François Truffaut, un visionario, un genio, famoso per aver fondato insieme a Jean-Luc Godard, Claude Chabrol, Éric Rohmer e Jacques Rivette la Nouvelle Vague, il movimento cinematografico più conosciuto e importante della storia del cinema.
Alla fine degli anni Cinquanta, la Francia viveva una profonda crisi politica, segnata dalla Guerra Fredda e dai contrasti della Guerra d’Algeria. Il cinema francese tradizionale dell’epoca aveva assunto una connotazione quasi documentaristica nel testimoniare questa crisi interna. I film erano diventati mezzi per rifondare una sorta di morale nazionale, i cui dialoghi e personaggi erano spesso frutto di idealizzazione.
Proprio questa tendenza idealistica e moralizzante rendeva il cinema di quegli anni distaccato dalla realtà quotidiana delle strade francesi. Fuori dalle finestre c’era una nuova generazione che stava cambiando, che parlava, amava, lavorava e faceva politica in modo diverso. Questa generazione chiedeva un cinema che rispecchiasse fedelmente il loro modo di vivere. E così, la gioventù, designata dai giornali come “Nouvelle Vague”, trovò la sua voce in un cinema altrettanto nuovo e rivoluzionario.
La Nouvelle Vague fu il primo movimento cinematografico a testimoniare in tempo reale l’immediatezza del divenire, la realtà in cui prendeva vita. I film che ne fanno parte venivano girati con mezzi di fortuna, nelle strade e negli appartamenti, ma proprio per la loro semplicità possedevano la sincerità di un diario intimo di una generazione disinvolta e inquieta. Una sincerità nata dal fatto che i registi, poco più che ventenni, erano essi stessi parte di quel nuovo modo di pensare, leggere e vivere il cinema.
Il film più importante di questo movimento, a mio avviso, è proprio “I 400 colpi”, il primo lungometraggio di Truffaut. Un film meraviglioso che racconta la storia di Antoine (Jean-Pierre Léaud), un ragazzo parigino di dodici anni, svogliato e irrequieto, che preoccupa seriamente i suoi genitori. Spinto da un’indole insofferente e ribelle, combina ogni sorta di guai. La sua famiglia, tuttavia, non esercita un’influenza positiva sul suo sviluppo. Antoine è nato da una relazione prematrimoniale della madre, che anche dopo il matrimonio non ha rinunciato a relazioni extraconiugali. Il patrigno è un uomo debole, presuntuoso e sciocco, sempre pronto a rinfacciare ciò che ha fatto per la moglie e per Antoine, trattandolo come un peso. Sentendosi a disagio in famiglia e incompreso a scuola, Antoine comincia a marinare le lezioni e a vagabondare per Parigi con l’amico Renè, spendendo senza risparmio i soldi che riesce a procurarsi. Sorpreso a rubare una macchina da scrivere nell’ufficio del patrigno, Antoine viene mandato in una casa di correzione, e i genitori sono lieti di liberarsi della responsabilità di lui. In istituto, Antoine vive esperienze umilianti finché un giorno decide di evadere. Non torna però a casa; prima di affrontare l’ignoto, vuole soddisfare un desiderio che ha a lungo coltivato: vedere il mare.
La storia, apparentemente semplice, è raccontata con una poesia unica, attraverso inquadrature meravigliose e un bianco e nero splendido. “I 400 colpi” cattura lo spettatore, che può facilmente identificarsi nelle dinamiche familiari o nella ribellione del protagonista. Ed è proprio questo l’intento della Nouvelle Vague: raccontare la realtà con finezza, amore e ricerca, restituendo allo spettatore una visione sincera e autentica del mondo in cui vive.
Con Truffaut, il cinema divenne specchio della vita quotidiana, rivelando l’arte nascosta nel vivere comune e ribadendo, attraverso la ribellione del giovane Antoine, il potere del cinema di farci vedere oltre l’orizzonte delle nostre esistenze.
È uscito al cinema il nuovo film, o “favola”, come viene definita all’inizio della pellicola, di Francis Ford Coppola, Megalopolis. Un’opera complessa, meravigliosa sia dal punto di vista registico che concettuale.
È evidente come Coppola abbia voluto riversare tutto in quello che, molto probabilmente, sarà il suo ultimo film, a volte anche in maniera eccessiva.
Il film abbonda di discorsi complessi e critiche costanti alla società, ma trasmette anche la speranza nell’amore, un sentimento che la vita ha tolto al regista con la recente scomparsa della moglie Eleanor, morta ad aprile e a cui il film è dedicato.
In un’America alternativa, la città di New Rome è dominata da un’élite di famiglie patrizie che, pur professando rigidi codici morali, indulge in piaceri proibiti, mentre il popolo vive in miseria.
Protagonista della storia è Cesar Catilina, un architetto e vincitore del Nobel per l’invenzione di un materiale rivoluzionario chiamato Megaton. Sebbene possieda il potere segreto di fermare il tempo, la sua vita è segnata dal rimorso per la misteriosa scomparsa della moglie, un evento che lo ha spinto all’alcolismo.
Cesar sogna di costruire Megalopolis, una città ideale e utopica, mentre il sindaco Cicero propone un casinò per rilanciare l’economia. A questo punto, Cesar incontra Julia, la figlia di Cicero, e tra loro nasce una relazione, nonostante le iniziali divergenze.
Intanto, Wow, ex amante di Cesar, e Pulcher, suo rivale politico, complottano contro di lui. Cesar si trova quindi a dover scegliere in chi riporre la propria fiducia, chiedendosi cosa meriti davvero l’umanità.
Le interpretazioni sono magistrali, con un Adam Driver sempre eccessivo ma mai ridicolo, e un Giancarlo Esposito, noto al grande pubblico per il ruolo di Gustavo Fring in Breaking Bad, eccezionale nella parte del villain iniziale.
Perfette le interpretazioni di Nathalie Emmanuel nel ruolo di Julia Cicero e Aubrey Plaza nei panni di Wow Platinum, una donna con un unico obiettivo: il potere. Meravigliosa anche la performance di Shia LaBeouf nel ruolo di Clodio Pulcher, che si rivela il vero rivale di Cesar.
Si tratta di un film indipendente che Coppola ha dovuto finanziare da solo, dopo che l’intero sistema cinematografico aveva cercato di boicottarlo e impedirne l’uscita.
Il film si è rivelato splendido, nonostante si sappia già che sarà un flop per il grande pubblico.
Megalopolis ha permesso al regista di sfogarsi, di affrontare un dolore che non potrà mai scomparire, quello della morte della moglie, ma che va comunque accettato.
E direi che Coppola, con l’uscita di questo film, è riuscito ad affrontarlo nel miglior modo possibile, regalando al mondo uno dei film più belli degli ultimi vent’anni, con tutti i suoi difetti e le sue esagerazioni.
★★★★☆