Cinema
Il cortometraggio “Accamòra” della regista reggina Muzzupappa tra i titoli più visti su RaiPlay
Il Sindaco di Reggio, Giuseppe Falcomatà si congratula con la regista reggina Emanuela Muzzupappa, dopo che il cortometraggio “Accamòra”, da lei realizzato, è posizionato tra i più visti su RaiPlay
“Complimenti alla regista Emanuela Muzzupappa che, con il suo cortometraggio Accamòra, sta battendo le grandi pellicole cinematografiche internazionali per visualizzazioni su RaiPlay”
“Un contributo cinematografico che rende orgogliosa la Calabria, perché lancia un messaggio di autenticità calabrese in grado di superare l’impatto della spettacolarizzazione e dei grandi effetti speciali, sfidando le frenesia digitale del nostro tempo”.
“In un contesto cinematografico infatti, in cui le piattaforme streaming offrono prodotti costruiti e sceneggiati a suon di milioni di euro, il piccolo miracolo di Accamòra, (‘in questo momento’) riesce a restituire quell’esperienza di verità ed intimità di cui è in cerca l’appassionato, trasformando un paradigma tipico americano che detta tempi convulsi e roboanti, in un racconto condotto da emozione e semplicità”.
“E’ questo il grande merito che va riconosciuto ad Emanuela Muzzupappa, capace di svelare una terra non artefatta ma riportata nel grande schermo attraverso la sua anima autentica, che esalta la dignità e la bellezza della vita rurale senza mai sacrificare la forza visiva dei luoghi e dei personaggi che raccontano la parte migliore della Calabria”.
Netflix sceglie la Calabria: la Regione s’appresta a diventare set e laboratorio internazionale
C’è una brezza nuova che soffia dalla costa ionica fino all’Aspromonte, e porta con sé le insegne rosse di Netflix. La piattaforma di streaming più seguita al mondo sembra aver trovato in Calabria non solo scenari mozzafiato, ma anche storie e talenti capaci di parlare un linguaggio universale.
Negli ultimi anni la regione è diventata un set sempre più frequentato. Hey Joe, con un inaspettato James Franco tra le strade di Pizzo e le foreste della Sila, ha acceso i riflettori sulle potenzialità di location fino a poco tempo fa considerate marginali. Una femmina, diretto da Francesco Costabile e approdato su Netflix nel 2023, ha invece raccontato la forza di un territorio attraverso lo sguardo intenso della giovane Lina Siciliano. E se Arbëria, film dedicato alle comunità arbëreshë, ha portato sullo schermo la ricchezza culturale dei paesi interni, la serie Briganti ha lanciato nel mondo i volti calabresi di Alessio Praticò e Marco Iermanò.
Ma non si tratta solo di cinema e serie. La Calabria sta diventando un punto d’incontro per le star internazionali della piattaforma. Al Magna Graecia Film Festival di Soverato, il pubblico ha accolto con entusiasmo Giancarlo Esposito, volto iconico di Kaleidoscope. Pochi giorni dopo, il Calabria Food Fest di Squillace ha portato in piazza attori amatissimi come Zane Phillips (Glamorous), la colombiana Ana Lucía Domínguez (Pálpito), Mauricio Henao (High Heat) e lo statunitense Froy Gutierrez (One Day at a Time).
E a settembre 2025 sarà la volta della formazione: a Santa Caterina dello Ionio il resort Torre Sant’Antonio ospiterà il Workshop “From Script to Pitch” che accoglierà figure di primo piano del mondo Netflix come Sara Furio, ex executive internazionale, la produttrice americana Lisa Ellzey e lo sceneggiatore britannico Alex Kendall. Un laboratorio che unisce scrittura, mentoring e respiro globale, proprio a due passi dal mare.
Non è un caso: la Calabria Film Commission ha scelto di investire sulla grande serialità, intercettando la domanda crescente di produzioni internazionali e offrendo sostegno concreto. E Netflix ha risposto, trovando nella regione un terreno fertile, fatto di location sorprendenti, giovani interpreti e una comunità culturale sempre più attenta.
Quello che fino a poco tempo fa sembrava un sogno è oggi un dato di fatto: la Calabria è entrata nella geografia delle produzioni globali. E i nomi che l’hanno già scelta – da Franco a Esposito, da Praticò a Domínguez – raccontano di un territorio che non è più periferia, ma cuore pulsante di nuove narrazioni.
La sensazione, oggi, è che la Calabria stia vivendo un nuovo rinascimento creativo. Non più solo terra da cartolina, ma luogo in cui si intrecciano storie locali e immaginari globali. Netflix, con la sua capacità di connettere milioni di spettatori in ogni angolo del mondo, ha trovato qui una materia prima rara: autenticità.
Quando un attore come Giancarlo Esposito promette di tornare a girare un film in Calabria, o quando giovani calabresi come Alessio Praticò e Camil Way conquistano la ribalta internazionale passando proprio dal catalogo Netflix, vuol dire che qualcosa si è messo in moto. È l’inizio di un circolo virtuoso in cui il territorio nutre le storie e le storie restituiscono al territorio orgoglio e visibilità.
La Calabria, da sempre terra di partenze, sembra oggi trasformarsi in meta di arrivi: di star, di produzioni, di idee. E questa volta non si tratta di un passaggio effimero, ma dell’inizio di un percorso che potrebbe consegnare alla regione un ruolo stabile sulla mappa dell’audiovisivo mondiale.
Perché, al di là dei set e dei festival, resta una certezza: in Calabria c’è una luce speciale, un ritmo diverso, una bellezza che non ha bisogno di artifici. Ed è proprio lì, in quell’autenticità, che Netflix e il mondo intero hanno deciso di posare lo sguardo.
Assunzioni dirigenti scolastici: l’On. Gentile presenta interrogazione ai Ministri competenti
«Ho presentato un’interrogazione parlamentare ai Ministri dell’Istruzione e della Pubblica Amministrazione per chiedere chiarezza e tempestività nella gestione delle immissioni in ruolo dei Dirigenti Scolastici – dichiara l’On. Andrea Gentile, deputato di Forza Italia – alla luce delle criticità segnalate dalla Segretaria Nazionale dell’UDISI – CONFIAL (Unione Dirigenti Scolastici Italiani), Prof.ssa Rita Guadagni, che ringrazio per l’approfondito lavoro svolto».
L’interrogazione pone l’attenzione su una situazione inaccettabile: centinaia di sedi scolastiche vacanti e ricorso sistematico alle reggenze, mentre dirigenti già selezionati tramite concorso attendono ancora l’immissione in ruolo.
«È fondamentale – prosegue Gentile – che tutti i posti disponibili vengano assegnati a partire dall’anno scolastico 2025/2026, eliminando le reggenze e garantendo stabilità alla governance delle scuole».
In particolare, il parlamentare azzurro chiede:
• la restituzione dei 308 posti sottratti su base nazionale alle regioni di origine nel concorso riservato;
• l’immissione in ruolo del 100% dei vincitori, valorizzando le graduatorie sia del concorso ordinario che del riservato;
• il superamento dei vincoli percentuali (60%-40%) per permettere uno scorrimento equo ed efficace.
«Non si tratta solo di una questione amministrativa – conclude Gentile – ma di una scelta strategica per il buon funzionamento delle scuole italiane. Continueremo a lavorare a tutela della dirigenza scolastica e della qualità del nostro sistema educativo, affinché ogni scelta sia improntata a criteri di efficienza, trasparenza e merito».
La Scuola di Recitazione della Calabria collabora alla produzione del film “Due famiglie, un funerale”
Prodotto da Marvaso Production Films, il film — ormai giunto a fine riprese — vanta un cast ricco di volti noti e apprezzati dal pubblico italiano, tra cui: Enzo Salvi, Maurizio Mattioli, Andrea Roncato, Isabella Adriani, Fioretta Mari, Anita Kravos, Raffaella Fico, Giuseppe Marvaso, Giorgia Fiori.
La regia è firmata da Mark Melville, con una sceneggiatura scritta da Marco Cassini, Domenico Helenio Marvaso (anche produttore) e Salvatore Romano. Il film si distingue per il ritmo dinamico e coinvolgente, dove azione, humor e continui colpi di scena si alternano tra i paesaggi mozzafiato della Costa degli Dèi, in Calabria. Le suggestive località di Tropea, Pizzo Calabro, Ricadi e Parghelia diventano il cuore visivo di una storia complessa, coraggiosa e interamente realizzata da una produzione indipendente.
All’interno di questo progetto, la Scuola di Recitazione della Calabria ha avuto un ruolo di primo piano, offrendo un contributo significativo sia nella ricerca di sponsor, sia nell’inserimento di numerosi talenti nel cast artistico.
Tra i partecipanti figurano, con ruoli e figurazioni: il fondatore e direttore Walter Cordopatri, l’allieva diplomata Federica Sottile e tutti gli allievi del Triennio Accademico:
Flavia Orecchio, Marco Aquino, Teresa Sorace, Enrica Iannelli, Valerio Diaco, Clarissa Severino.
A completare il cast anche gli allievi del corso laboratoriale: Angela Valensise, Caterina Borrello, Pasquale Vita, Federica Il Grande, Melissa Fiumara, Filippo Toscano, Giuseppe Ierace, Domenica Sorrenti, Rachele Gerace, Armando Giovinazzo, Salvador Cristarello.
Sempre attraverso i canali della SRC hanno dato il loro prezioso contributo numerose comparse, selezionate con cura e professionalità, che hanno saputo arricchire le scene del film con autenticità e vitalità.
Un sentito ringraziamento alla produzione Marvaso Production Films per aver condiviso con noi questo progetto nel quale crediamo fortemente e che, siamo certi, saprà appassionare il pubblico.
Per la Scuola di Recitazione della Calabria si tratta di una nuova conferma del proprio ruolo di riferimento nel panorama delle produzioni televisive, cinematografiche e teatrali: non solo un centro di formazione artistica d’eccellenza, ma anche una vera fucina di opportunità professionali concrete per i giovani attori/attrici e le nuove generazioni di interpreti.
La recente sentenza sull’omicidio di Giulia Cecchettin, in cui il colpevole, Filippo Turetta, è stato accusato di un omicidio senza “crudeltà” e con una motivazione legata alla “inesperienza”, ha suscitato una forte indignazione pubblica.
La reazione, soprattutto sui social e nei media, è stata immediata e spesso basata su emozioni forti, senza una reale comprensione dei dettagli giuridici del caso.
Ma questa indignazione, seppur comprensibile a livello umano, è davvero giustificata?
La parola crudeltà, nel linguaggio giuridico, ha un significato ben diverso rispetto all’uso comune che ne facciamo nel linguaggio quotidiano.
Quando sentiamo parlare di “crudeltà” in relazione a un omicidio, la nostra mente è inevitabilmente attratta dall’immagine di una sofferenza inflitta con premeditazione e intenzionalità. Tuttavia, nella legge, il concetto di “crudeltà” implica una serie di criteri specifici che non sempre corrispondono alla nostra percezione emotiva del crimine.
La sentenza, purtroppo, è stata fraintesa da molti, che hanno letto il verdetto come un’ingiustizia, non comprendendo la distinzione tra l’emozione umana e le necessità legali.
Turetta ha ottenuto il massimo della pena, segno che la giustizia ha preso atto della gravità dell’omicidio e della responsabilità dell’assassino.
Questa sentenza, peraltro, potrebbe segnare un punto di svolta importante nella lotta contro il femminicidio anche grazie all’impatto mediatico che sta avendo.
Il sistema giuridico sembra rifiutare la narrazione del “raptus di gelosia” e dell’omicidio passionale a differrenza del passato, dove molti crimini simili sono stati giustificati con l’idea che il colpevole avesse agito sotto un’onda emotiva incontrollabile, una reazione impulsiva per amore o gelosia.
Ora, invece, la sentenza ha chiarito che la responsabilità di Turetta è totale, rifiutando ogni attenuante.
Il fenomeno dell’indignazione pubblica, che esplode rapidamente nei casi di crimini di questo tipo, è oggi alimentato da una cultura che spesso privilegia le reazioni emotive rispetto alla riflessione razionale.
La voglia di indignarsi per il gusto stesso di farlo è diventata una prassi, alimentata da una ricerca di sensazioni forti e immediate.
Questo meccanismo sociale è ormai tanto diffuso che non ci fermiamo più a riflettere, vomitando odio verso tutto e tutti senza una ricerca più profonda.
Ma la responsabilità di questa ondata di indignazione va cercata anche nei media e nei mezzi di informazione, che hanno una parte fondamentale nel costruire il clima emotivo che circonda certi casi.
Spesso, i giornali, i programmi televisivi e i social media tendono a semplificare e a drammatizzare i fatti, alimentando la rabbia e la frustrazione del pubblico senza fornire una comprensione completa delle circostanze.
Le notizie vengono presentate con titoli sensazionalistici, pronti a scatenare una reazione immediata, ma raramente vengono esplorati i dettagli più profondi o le motivazioni giuridiche che sottendono una sentenza.
In questo contesto, i media non solo amplificano l’indignazione, ma contribuiscono anche a distorcere la percezione che il pubblico ha della giustizia.
Il “clickbait” e la ricerca del sensazionalismo sono diventati parte integrante del nostro consumo mediatico, che è orientato solo alla reazione immediata, al “dramma”, al conflitto.
A questo punto, è utile guardare a Videodrome (1983), film capolavoro di David Cronenberg, che affronta temi di eccitazione, violenza, tecnologia e superficialità, una vera profezia di quello che avremmo vissuto più di 40 anni dopo.
Nel film, Nicky (Debbie Harry) descrive come l’umanità stia cercando costantemente emozioni sempre più forti, ma sempre più disilluse.
La sua riflessione sul fatto che la nostra società abbia smesso di ricercare emozioni “autentiche”, preferendo invece l’eccitazione per l’eccitazione stessa, è estremamente pertinente in questo contesto.
La riflessione del Professor O’Blivion sempre in Videodrome appare quasi come una profezia che si è avverata, e risuona con inquietante veridicità nel contesto moderno ed è estremamente attinente all’indignazione riguardo la sentenza di Turetta.
Quando afferma che “lo schermo televisivo è l’unico vero occhio dell’uomo”, non si riferisce solo al mezzo di comunicazione, ma a come la nostra percezione della realtà sia ormai mediata dalla televisione e dai media.
In un’epoca dove la distorsione della realtà è quotidiana e l’informazione è filtrata, la televisione o i social media diventano l’unica finestra attraverso cui osserviamo il mondo, determinando la nostra comprensione e reazione agli eventi.
Questo potere di manipolare le emozioni, influenzare l’indignazione e costruire narrazioni distorte è ciò che fa dei media una forza tanto potente quanto pericolosa.
Questo film ci avverte di come la realtà possa essere consumata senza essere veramente compresa e di come ci ritroviamo ad agire non sulla base di una riflessione profonda, ma di un’emozione estemporanea, forgiata dal sensazionalismo mediatico.
Così come ci avverte della pericolosità di una società che cerca il piacere facile e immediato a scapito della profondità, anche l’indignazione pubblica che esplode senza cognizione di causa può essere altrettanto pericolosa.
Siamo pronti a saltare alla conclusione che la giustizia sia stata travisata alimentando lotte di qualsiasi tipo quando invece in casi come questi la cosa più importante dovrebbe essere l’unione.
La sentenza nel caso di Turetta potrebbe non piacere, ma è il risultato di una riflessione giuridica che ha preso in considerazione le circostanze specifiche del crimine.
La ricerca di emozioni forti, come quella descritta in Videodrome, è una manifestazione di una cultura che ormai preferisce l’eccitazione all’autentica comprensione ma solo prendendoci il tempo di riflettere con attenzione e distinguere emozione e giustizia potremo sperare di costruire una società che sappia affrontare le difficoltà con maggiore lucidità e consapevolezza.
Sanità Calabria: aperta nuova sala operativa del 118 alla Cittadella Regionale
Da martedì 25 febbraio, la sala operativa del 118 di Catanzaro è stata trasferita nella nuova sede della Cittadella regionale di Germaneto.
Sono state rinnovate le dotazioni tecnologiche con strumentazioni di ultimissima generazione, adeguandole agli standard nazionali e rendendole pienamente compatibili alle tecnologie del numero unico europeo 112.
La sala operativa del 118 di Catanzaro è stata adeguata anche nella dotazione di personale, realizzando inoltre un rinnovamento generazionale.
Al momento sono operativi 12 postazioni incrementabili a 18, con la possibilità aggiuntiva di altre 6 postazioni per la eventuale gestione delle maxi emergenze. La sala operativa del 118 di Catanzaro processa le richieste di soccorso provenienti dall’area sud del territorio Regionale (precisamente le province di Catanzaro, Vibo Valentia e Reggio Calabria) per un totale di circa 1 milione di abitanti; le postazioni di soccorso territoriali governate sono 37 distribuite per le tre province, con una più capillare copertura rispetto al recente passato (anno 2023), visto il potenziamento deliberato con i decreti del Commissario ad Acta 198/2023 e 78/2024.
Nella sala operativa di Catanzaro è inoltre presente la Centrale regionale Elisoccorso (CrEli) per la gestione delle 4 basi di elisoccorso. A fine 2023 il 118 regionale era organizzato su 5 centrali operative disconnesse tra di loro con un software gestionale risalente addirittura al 1997.
Ad oggi la Regione Calabria ha uniformato sull’intero territorio il numero unico europeo 112 come previsto dalle leggi europee e nazionali, e unificato il 118 unico regionale, suddiviso in due sale operative: una su Cosenza (area nord) e una su Catanzaro (area sud). In entrambe le sale operative sono stati rinnovati tutti i sistemi tecnologici ed è stato avviato un rinnovo totale dei mezzi sanitari. Contestualmente al potenziamento dei mezzi sono state fatte assunzioni di personale dedicato per 163 autisti e circa 150 infermieri. Le postazioni del 118 da 54 saranno incrementate a 75 (ad oggi sono 70).
“La nuova sede della sala operativa del 118 di Catanzaro che è stata allestita nella Cittadella regionale – ha affermato il direttore generale di Azienda Zero, Gandolfo Miserendino – è parte di un continuo lavoro che Azienda Zero insieme al Dipartimento Salute e Welfare e all’Asp di Cosenza svolgono quotidianamente per migliorare le condizioni del servizio di emergenza urgenza in Calabria. Ringrazio tutti i professionisti che collaborano a questo prezioso servizio, dimostrando la loro continua abnegazione verso la tutela dei più fragili. Fino a qualche anno fa la Calabria aveva 5 centrali operative del 118, scollegate tra loro, spesso senza connessione ad internet, con le ambulanze che venivano chiamate telefonicamente senza alcuna organizzazione. Oggi abbiamo 2 sale operative rinnovate, con strumentazioni di ultima generazione, con addetti formati e pronti a dare nel più breve tempo possibile risposte adeguate alla cittadinanza. La strada da fare è ancora lunga – ha sottolineato Miserendino – ma in questo momento la Calabria può vantare un sistema di risposta nell’emergenza-urgenza in linea con il resto del Paese”.
Il 16 gennaio 2025 è morto David Lynch, un visionario assoluto, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi.
Era da molto tempo affetto da un enfisema polmonare a causa del suo tabagismo, nato all’età di 8 anni e che lo portava a fumare 2 pacchetti al giorno.
Anche questo può descrivere l’artista incredibile che è stato: sapeva che si stesse facendo del male, ma ha continuato imperterrito, come ha continuato imperterrito a donare alla gente le sue opere meravigliose, cosciente degli incubi che avrebbe provocato allo spettatore. Nasce come pittore e non studia mai cinema, ma era chiaramente un predestinato.
Iniziando con dei cortometraggi anch’essi stupendi, il regista americano sforna la sua prima opera e, ovviamente, il primo dei tanti capolavori della sua filmografia.

“Eraserhead – La mente che cancella” (1977) è il suo primo film: un viaggio, anzi, un incubo nella paternità, nei dubbi e nelle paure che può avere un aspirante padre o un neo-papà, una spirale di follia, un film sperimentale che, alla fine, racchiude tutte le tecniche e la sua filosofia, poi riversate in tutti i suoi altri film.
l film è ricco di immagini fortemente simboliche: la città di Eraserhead è un paesaggio urbano cupo, caratterizzato da ambienti industriali e inquietanti, mentre il suono, che gioca un ruolo fondamentale, crea un’atmosfera che si percepisce come alienante. La colonna sonora di Alan Splet, fatta di rumori meccanici e suoni inquietanti, amplifica il senso di angoscia, immergendo lo spettatore in un mondo che sembra essere in preda al caos.
Il tema centrale del film è la paura dell’inadeguatezza e dell’isolamento. Henry, incapace di gestire la paternità e la sua situazione, è intrappolato in un’esistenza che sembra una continua minaccia, sia psicologica che fisica. Il mostro bambino diventa una sorta di allegoria per le ansie umane, la paura dell’incomprensibilità della vita e l’incapacità di controllarla.
Lynch gioca con il confine tra sogno e realtà, creando un mondo che potrebbe essere letto come una distorsione psicologica della mente del protagonista. Le immagini sono spesso oniriche, ambigue e non sempre spiegate, lasciando spazio a molteplici interpretazioni. Ogni scena sembra avere un significato che sfida la comprensione razionale, un tratto distintivo che diventerà una costante nei suoi lavori successivi.

“The Elephant Man” (1980) è un altro capolavoro, ma stavolta si discosta dall’inquietante surrealismo di Eraserhead per abbracciare una storia più realistica, anche se sempre profondamente emotiva e umana. Il film racconta la vera storia di John Merrick, un uomo che nel XIX secolo divenne famoso per le sue deformità fisiche estreme, che lo rendevano simile a un “mostro” agli occhi della società.
Il protagonista, interpretato magistralmente da John Hurt, è un uomo che soffre di una malattia rara chiamata neurofibromatosi, che causa una deformazione straordinaria del suo corpo. Merrick vive inizialmente come una sorta di attrazione da circo, sfruttato e abusato, ma la sua vita prende una piega diversa quando un giovane dottore, Frederick Treves (Anthony Hopkins), lo scopre e lo porta in ospedale, dove diventa il soggetto di studi medici.
Il film esplora il conflitto tra la brutalità della società nei confronti di Merrick, che viene trattato come una curiosità morbosa, e la sua straordinaria umanità. Lynch, pur trattando temi di emarginazione e sofferenza, infonde al suo personaggio una profondità emotiva che fa emergere la sua dignità e il suo desiderio di essere trattato come un essere umano, non come un mostro. Il personaggio di Merrick è rappresentato con una grande delicatezza, mostrando non solo la sua sofferenza fisica, ma anche la sua solitudine e il suo desiderio di essere amato e rispettato.

Il terzo film della sua filmografia è forse il meno riuscito: “Dune” (1984), opera che oggi sta avendo un grande successo grazie al riadattamento di Denis Villeneuve.
Sebbene il film non sia stato un successo immediato e abbia ricevuto critiche contrastanti, con il passare degli anni è diventato un cult per molti appassionati di cinema, grazie alla sua visione unica e all’approccio distintivo.
La storia è ambientata in un futuro lontano, in un impero galattico che controlla un pianeta desertico chiamato Arrakis. Questo pianeta è l’unica fonte dell’ “melange”, o spezia, una sostanza che è cruciale per il viaggio spaziale e per l’economia dell’universo conosciuto.
Il giovane Paul Atreides (Kyle MacLachlan), erede della Casa Atreides, si trova al centro di una lotta politica e di un conflitto interstellare quando la sua famiglia viene tradita e distrutta dalla Casa Harkonnen, rivale dei Atreides.
Paul dovrà affrontare il destino che gli è stato prefigurato, diventando una figura messianica e un leader rivoluzionario.

“Velluto blu” (1986) è uno dei film più iconici di Lynch, un thriller psicologico che mescola il noir con il surreale.
La storia ruota attorno a Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan), un giovane che scopre un orecchio mozzato in un campo e si coinvolge in un misterioso caso legato a una cantante di club, Dorothy Vallens (Isabella Rossellini).
Mentre indaga, Jeffrey si imbatte in Frank Booth (Dennis Hopper), un criminale psicotico, e si trova immerso in un mondo sotterraneo di violenza, perversione e follia.
Il film esplora temi di dualità e corruzione, contrastando l’apparente normalità di una cittadina con il lato oscuro che si cela sotto la superficie. La fotografia, con il suo uso distintivo di luci e ombre, e la colonna sonora di Angelo Badalamenti, con il tema musicale inquietante, contribuiscono a creare un’atmosfera di tensione e ambiguità.
Un racconto sul desiderio, il controllo e la discesa nella mente distorta, un film che sfida la visione tradizionale del “sogno americano” e lascia lo spettatore turbato e pensieroso.

“Cuore selvaggio” (1990) è un film di David Lynch che mescola il road movie con il noir e l’assurdo.
Racconta la storia di Sailor (Nicolas Cage) e Lula (Laura Dern), due giovani innamorati che fuggono da una serie di minacce, tra cui la madre di Lula, una donna ossessionata dal controllo e dai traumi del passato.
La coppia attraversa gli Stati Uniti, affrontando incontri surreali e violenti, mentre si confrontano con l’amore, la libertà e la follia.
Il film è caratterizzato dal tipico stile visivo e narrativo di Lynch, con un tono grottesco e momenti di estrema violenza, ma anche di puro romanticismo.
Il mix di surrealismo, simbolismo e umorismo nero crea una riflessione sul destino e sull’ossessione, mentre la colonna sonora, con brani rock e blues, accentua il senso di ribellione e passione che anima i protagonisti.
Un film che oscilla tra il sogno e l’incubo, esplorando la natura destrutturata del desiderio e della libertà.

“Twin Peaks” (1990-1991; 2017) ha segnato un prima e un dopo nella storia della televisione seriale.
Con “Twin Peaks” Lynch ha ridefinito cosa una serie TV potesse essere, creando un vero e proprio culto.
La serie ha portato nel mainstream un mix di surreale, mistero e introspezione psicologica mai visto prima, influenzando generazioni di autori e spettatori. Tutti hanno sentito anche solo una volta Laura Palmer.
La terza stagione, intitolata “The Return”, ha ulteriormente spinto i confini del medium televisivo, con episodi sperimentali come il celebre episodio 8, un viaggio visivo e sonoro che racconta l’origine del male.

Nel 1992 torna al mondo di Twin Peaks con “Twin Peaks: fuoco cammina con me”, prequel della serie che sconvolge lo spettatore con la cruda rappresentazione della discesa agli inferi di Laura Palmer.
Il film si concentra sugli ultimi giorni di vita della giovane, rivelando il peso insopportabile dei suoi segreti e delle sue sofferenze. È un’opera disturbante, che amplifica il lato oscuro della serie originale.

“Strade Perdute” (1997) è un labirinto mentale tra identità spezzate e paure recondite, in cui la narrazione segue percorsi non lineari e sfida costantemente le aspettative dello spettatore.
La storia di Fred Madison, accusato dell’omicidio della moglie, si trasforma in un intricato gioco di sdoppiamenti e simbolismi.
Ogni scena sembra carica di significati nascosti, dove il tempo si distorce e il pubblico è costretto a navigare in un mare di enigmi. La violenza, l’amore, la morte e la vendetta si mescolano in una danza macabra che non offre risposte facili, ma invita a una riflessione profonda su come percepiamo la realtà, le emozioni e il nostro posto nel mondo. In questo modo, Strade Perdute non è solo un thriller psicologico, ma anche una meditazione sulla psiche umana e sulle forze oscure che la governano.

“Una storia vera” (1999) è un film che si distacca dalle sue consuete atmosfere surreali per esplorare una narrazione più semplice e toccante, pur mantenendo il suo stile unico.
La storia segue Alvin Straight (Richard Farnsworth), un anziano contadino dell’Iowa che intraprende un lungo viaggio in trattore per riavvicinarsi al fratello malato. Il film si concentra sul tema della famiglia, della redenzione e dell’invecchiamento, con una riflessione silenziosa e profonda sulla vita e la morte.
Nonostante l’apparente linearità della trama, Lynch infonde il film con una qualità riflessiva, con l’uso di paesaggi rurali e momenti di solitudine che creano un’atmosfera di malinconia e meditazione. Una storia vera è una rara incursione del regista nel dramma realistico, ma la sua capacità di evocare emozioni profonde e di esplorare la condizione umana è evidente anche in questo contesto più sobrio.

“Mulholland Drive” (2001) è probabilmente il suo lavoro più celebrato, un sogno lucido e inquietante che esplora le illusioni e le delusioni di Hollywood.
Betty (Naomi Watts), un’aspirante attrice, arriva a Los Angeles e si ritrova coinvolta in un mistero insieme a una donna smemorata. Il film fonde realtà e fantasia, facendo emergere i lati oscuri del sogno hollywoodiano.
La Los Angeles di Lynch è un luogo ambiguo, pieno di speranze infrante, e il film esplora la solitudine e la disillusione che si nascondono dietro le luci della città.
Con la sua narrazione non lineare e la ricca simbologia, Mulholland Drive è un’opera che sfida e affascina, lasciando un’impronta indelebile nella mente dello spettatore e spaventando con uno degli jumpscares più spaventosi di sempre.

“Inland Empire – L’impero della mente” (2006) è un’opera densa e sfuggente, che sfida ogni convenzione narrativa.
Lynch utilizza una struttura frammentata, senza una trama chiara o risoluzioni facili, costringendo lo spettatore a navigare in un mondo dove il tempo e lo spazio si confondono.
La performance di Laura Dern è al centro del film, con un’interpretazione che sfuma tra il reale e il surreale, mentre il suo personaggio si perde in una spirale di esperienze bizzarre e inquietanti.
Le immagini, spesso volutamente crude e sovraesposte, e il suono, ricco di tensione, sono usati da Lynch per creare una sensazione di angoscia crescente.
Il film esplora la dissoluzione dell’identità, i desideri oscuri e le ossessioni nascoste dietro la facciata di Hollywood, ma anche la sensazione di essere intrappolati in un ciclo infinito di realtà multiple e narrazioni impossibili da decifrare.
Inland Empire è un’ode all’irrealtà, un film che non offre spiegazioni, ma che stimola riflessioni su come vediamo e costruiamo la realtà.
David Lynch non è stato e non è chiaramente per tutti: le sue opere hanno sempre sfidato lo spettatore a riflessioni profondissime, provocando disagio e inquietudine.
I suoi film sono stati sempre veri e propri incubi, mai sogni. Il sogno americano nei suoi film non esiste; al massimo esiste il galleggiamento in una situazione comunque oscura. Non esiste la luce, ma solo buio.
Tuttavia, è proprio in questa oscurità che ha trovato una bellezza unica, capace di far emergere emozioni viscerali e profonde.
Sono veramente pochi i registi che non saranno mai dimenticati, ma di certo Lynch è uno di questi.
La mente degli spettatori, questa volta, non cancellerà quello che è stato uno dei migliori artisti del 21° secolo.
“Sotto accusa”: quando il cinema denuncia la violenza fisica e psicologica sulle donne
Il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è un’occasione per riflettere su uno dei più grandi flagelli della nostra società. Da sempre, il cinema ha rappresentato uno specchio per i problemi sociali, dando voce a chi spesso rimane invisibile.
Tra i film che hanno saputo scuotere le coscienze spicca “Sotto accusa”, un’opera del 1988 diretta da Jonathan Kaplan, che resta tristemente attuale nella sua analisi della cultura della violenza sessuale e delle barriere che le vittime affrontano nella ricerca di giustizia.
“Sotto accusa” si ispira a un caso reale che sconvolse l’opinione pubblica americana negli anni ’80. Jodie Foster, in una delle sue interpretazioni più potenti e premiata con l’Oscar, dà vita a Sarah Tobias, una giovane donna che subisce uno stupro di gruppo in un bar, sotto gli occhi di numerosi testimoni che invece di aiutarla incitano i colpevoli.
Il film non si limita a raccontare l’atto di violenza, ma si concentra sul processo giudiziario e sulle dinamiche sociali che tendono a colpevolizzare la vittima. Sarah si ritrova a combattere non solo contro i suoi aggressori, ma contro i pregiudizi di una società che analizza il suo comportamento, il suo abbigliamento e le sue scelte personali per giustificare l’ingiustificabile.
“Sotto accusa” è un film che ci ricorda come la violenza non si manifesti esclusivamente attraverso gesti fisici. Anche la violenza psicologica lascia ferite profonde, spesso invisibili ma altrettanto devastanti.
La colpevolizzazione della vittima è una forma di violenza psicologica che Sarah affronta durante il processo. I tentativi di mettere in discussione il suo carattere e il suo stile di vita rappresentano un abuso emotivo che amplifica il trauma dello stupro.
Il film denuncia anche il peso dell’indifferenza sociale, che può trasformarsi in una forma di violenza simbolica. L’omertà dei testimoni nel bar, incapaci di intervenire o di prendere posizione, riflette una realtà in cui le vittime si trovano isolate e senza supporto.
La violenza psicologica, come quella subita da Sarah, non lascia segni visibili, ma mina la dignità, la sicurezza e il senso di valore personale delle donne. Questo tipo di violenza è spesso sottovalutato, ma ha conseguenze a lungo termine, come il senso di colpa, la depressione e il disturbo da stress post-traumatico.
Celebrando questa giornata, “Sotto accusa” ci invita a riflettere su due punti fondamentali:
La responsabilità collettiva: Ogni spettatore presente nel bar è complice della violenza, e il film ci ricorda che il silenzio e l’indifferenza sono anch’essi forme di violenza.
La multidimensionalità della violenza: Il film sottolinea come la violenza non sia soltanto fisica, ma anche emotiva, psicologica e istituzionale. La rivittimizzazione di Sarah da parte del sistema giudiziario e della società è una forma di abuso che merita la stessa attenzione del crimine iniziale.
A oltre trent’anni dalla sua uscita, “Sotto accusa” resta una pietra miliare del cinema di denuncia, ma la sua attualità dimostra che il cammino verso l’eliminazione della violenza sulle donne è ancora lungo.
Film come questo ci ricordano quanto sia fondamentale continuare a parlare, denunciare e agire.
La violenza, in tutte le sue forme, non è solo un problema delle vittime, ma una responsabilità collettiva che riguarda ogni angolo della società.
Oggi più che mai, il cinema ha il potere di sensibilizzare e ispirare azioni concrete.
“Sotto accusa” ci invita a non essere spettatori passivi della violenza, ma attori di un cambiamento necessario e urgente.
21 novembre 2003: un giorno che il cinema sudcoreano – e mondiale – non dimenticherà mai.
In questa data, Park Chan-Wook presenta al pubblico sudcoreano Oldboy, il secondo capitolo della sua celebre Trilogia della Vendetta.
Non un semplice film, ma un’esperienza viscerale, un’opera che squarcia le convenzioni del thriller e le ricompone in un mosaico di dolore e violenza.
Oldboy non è solo una storia di vendetta, è una spirale di follia, un enigma costruito come una tragedia greca.
La trama segue Oh Dae-su, un uomo comune, rapito senza motivo apparente e imprigionato per 15 anni in una stanza senza finestre.
Quando viene rilasciato, non cerca la libertà: vuole risposte, ma la vendetta che insegue è solo un tassello di un gioco sadico e crudele, orchestrato con precisione chirurgica.
Il film è tratto dall’omonimo manga giapponese, scritto da Garon Tsuchiya e illustrato da Nobuaki Minegishi.
Sebbene Park Chan-Wook prenda ispirazione dalla trama originale, la sua interpretazione è unica, amplificando il dramma psicologico e i temi morali con una profondità che trascende il medium originale.
“Ridi, e il mondo riderà con te. Piangi, e piangerai da solo.”
Con questa frase, il film apre un sipario che lascia intravedere tutta la solitudine e la brutalità dell’esistenza di Oh Dae-su.
“Fai molta attenzione a quello che fai. Perché un granello di sabbia può innescare una valanga.”
Una riflessione sulle conseguenze, sull’effetto domino delle azioni umane che, nell’universo vendicativo di Park Chan-wook, diventano micce pronte a esplodere.
“Non chiedermi perché ti ho imprigionato. Chiediti perché ti ho liberato.”
Una battuta che incarna perfettamente il gioco mentale tra i due protagonisti, un duello psicologico che culmina in uno dei finali più sconvolgenti della storia del cinema.
La musica è il cuore pulsante di Oldboy.
La colonna sonora, composta da Jo Yeong-Wook, accompagna il film con una delicatezza e una forza che amplificano le emozioni.
“The Last Waltz”, in particolare, è un brano iconico, una melodia malinconica e ipnotica che scandisce i momenti più intensi del film. Il waltz diventa un simbolo della danza tra vendetta e redenzione, un lento girotondo che trascina i protagonisti e il pubblico verso un inevitabile epilogo.
Oldboy è il cuore pulsante della trilogia di Park Chan-wook, composta da:
- “Mr. Vendetta” (2002)
Una storia brutale e spietata che esplora le conseguenze di un rapimento finito male. Qui la vendetta è dipinta come un virus: inevitabile, contagiosa, letale. - “Oldboy” (2003)
L’apice della trilogia, dove la vendetta diventa un’arte. Con una regia ipnotica e sequenze ormai leggendarie – come il piano sequenza del combattimento nel corridoio – Park trascina lo spettatore in un abisso di emozioni contrastanti. - “Lady Vendetta” (2005)
L’epilogo della trilogia è un inno alla redenzione. Geum-ja Lee, una donna accusata ingiustamente di omicidio, trama per anni un’elaborata vendetta contro il vero colpevole, ma lo fa con una lucidità quasi poetica.
Questi tre film, pur non essendo legati narrativamente, formano un trittico tematico.
Park esplora le molteplici sfaccettature della vendetta: come nasce, come consuma e, a volte, come libera.
A distanza di 21 anni, Oldboy rimane una pietra miliare del cinema mondiale. Ha influenzato registi di ogni parte del globo, ispirando rifacimenti e omaggi (come il controverso, per usare un eufemismo, remake di Spike Lee del 2013) che non può neanche minimamente paragonarsi alla potenza dell’originale, che non è solo un film, ma un’esperienza emotiva e filosofica che resta impressa nella memoria.